martedì 30 dicembre 2014

Dell'infanzia non rimpiango né l'età né la spensieratezza. Ho deciso che recupererò disincanto e ottimismo. Buon anno a tutti


Da piccolo pensavo che il 1999 sarebbe stato come quello dei telefilm: la vita organizzata su un'astronave Alpha. E poi lo spazio, le navicelle, magari la compagnia di una qualunque Maya mutaforma in grado di prendere le sembianze di qualsiasi animale. Poi il 1999 arrivò davvero. Ma il massimo di avveniristico che riuscì a produrre fu la psicosi da "Millennium bug". In quel caso, ammettiamolo, la realtà non riuscì a superare la fantasia.
Quando durante il secolo scorso si pensava all'arrivo del famigerato anno Duemila la letteratura e la cinematografia ricorrevano sempre ai razzi spaziali, alle guerre stellari, agli alieni che si sarebbero impadroniti della Terra oppure, tra le ipotesi più terrene, alla drammatica possibilità di nuove guerre nucleari, tra funghi atomici e "Days after".
Nessuno, al mio ricordo, almeno, immaginava che sarebbe stato possibile veicolare una notizia alla velocità della luce o conversare con un amico più o meno virtuale in un modo diverso dall'uso del telefono. Così come nessuno pensava che potessero ancora resistere malattie come il cancro, malgrado i passi avanti straordinari compiuti sul fronte della ricerca medico scientifica.
Da piccolo pensavo che gli anni Duemila avrebbero garantito un mondo più evoluto, meglio organizzato soprattutto in termini di distribuzione della ricchezza. E invece siamo di fronte ad una realtà assolutamente frammentaria, squilibrata. Una realtà nella quale, a parte la crisi economica, l'uomo non basta a se stesso, sempre più rivolto a soddisfare le esigenze personali di benessere più che ad impreziosire l'anima.
Da piccolo ero più ottimista di adesso. Di quel tempo oggi non rimpiango età e spensieratezza. Vorrei avere di nuovo disincanto e ottimismo. Ho deciso: li recupererò. Buon anno.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

venerdì 26 dicembre 2014

Selfie, che passione. Ci si immortala per essere immortali. In realtà si fanno per dimostrare (a se stessi) di essere vivi




Farsi un selfie, come si chiamano oggi i classici "autoscatti". Obiettivo: immortalarsi. Magari confidando, nel proprio intimo, nell’immortalità. 
Tanto più che molti selfie vengono scattati accanto a ciò che immortale più non è, pur appartenendo alla porpria stessa dimensione. Una specie di “Natura morta 2.0”. Non certo il tradizionale cesto di frutta con i chiaroscuri impossibili che, invano, qualcuno cercava di imparare a scuola durante le ore di educazione artistica. Le nature morte di oggi in realtà sono le lasagne fumanti appena condannate a morte dentro al piatto. Che, poi, altro che morte: le lasagne sono un assoluto distillato di vita.
Oppure un selfie accanto ad un'altra natura morta, cioè la bottiglia semivuota di Nero d’Avola. Così, almeno, i follower capiranno che il protagonista del selfie se l'è scialata.
Ma perché questa irrefrenabile voglia di selfie? Per esibizionismo o per bisogno di immortalità? Forse la seconda che ho detto. Ma la realtà è diversa. Sì, macché immortalità d'Egitto! In realtà ci si fanno i selfie per dimostrare che si è vivi. Il dramma però è che si obbedisce ad un bisogno drammatico: dimostrare a se stessi di essere vivi. 
Ed è questo ciò che più di ogni altra cosa deprime l'anima.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

Rosario Crocetta ha fatto molta pulizia ma non è riuscito a compiere la sua "rivoluzione". E l'antimafia, da sola, non basta più


La Sicilia (intesa come istituzione regionale) sta attraversando una delle fasi più complicate della sua storia. L'ennesimo rischio default, annunciato stavolta dall'Assessore al bilancio Alessandro Baccei (sì, proprio colui che Renzi ha mandato a Palermo per metterci sotto tutela) non è certo tranquillizzante. 
In questo quadro viene fuori lo strapotere dei poteri forti. Che esistono eccome. In Sicilia più che altrove. Il potere forte da queste parti è una melassa viscida e odiosa. Gli ingredienti: quelli di sempre: burocrati, politicanti da strapazzo, mafiosi. Quelli purtroppo non mancano mai.
È contro questo muro di gomma che è andato a sbattere (e continua a farlo) Rosario Crocetta. Due anni dopo la sua elezione, l'annunciata rivoluzione (ahimè) si è rivelata un percorso ad ostacoli, e non ha potuto fare molta strada. Ecco perché ogni volta che lui pronuncia la parola "rivoluzione" francamente mi scappa da ridere.
Certo, la congiuntura economica e le emergenze che negli anni si sono accumulate non gli hanno permesso di raggiungere gli obiettivi. È anche vero, però, che dalla gestione Crocetta viene fuori una verità disarmante, ossia che l'onestà, pur essendo un valore basilare per anni odiosamente accantonato, da sola non è sufficiente a dare risposte politicamente soddisfacenti e a cambiare le cose. Qual è l'alternativa? Essere disonesti? Naturalmente no, ci mancherebbe. L'alternativa è cercare di produrre qualche risultato, perché siamo ad un livello di tensione sociale sempre più allarmante.
Il Governatore della Sicilia ha fatto molta pulizia alla Regione, negarlo sarebbe stupido. Ma è stato, come si dice a Sciacca, come "cogghiri acqua cu 'u panaru", cioè come liberare una piscina di fango usando qualcosa di simile ad uno scolapasta. 
E alla fine il rischio è che ai proclami antimafia, a mio giudizio molto importanti sul piano dell'affrancamento culturale, la gente reagisca facendo spallucce. Ed è questo il pericolo che Crocetta dovrebbe avvertire. Ma che invece non avverte. Ed è questo quello che mi preoccupa. 
Il Presidente della Regione ritiene che la sua storia personale e che la sua straordinaria sfida contro Cosa nostra alla fine possano riscattare la sostanziale inefficacia della sua azione di governo. Così non è, dovrebbe sforzarsi di capirlo.
Troppa gente aspetta risposte. Da anni. Troppi uomini e troppe donne di questa terra sono rimasti nel limbo, in attesa di un cambiamento che non è arrivato. Uomini e donne protagonisti, loro malgrado, di una realtà costruita per decenni sulla clientela, afflitta dal bisogno di un lavoro e di un riscatto sociale. Persone alle quali Crocetta aveva garantito una soluzione. Che però non è arrivata. Forse non per colpa solo sua, intendiamoci. Ma chi era afflitto dal bisogno prima, lo è ancora di più oggi. 
Ecco perché non basta più, caro Presidente, invocare i valori antimafia per cercare di uscire dall'angolo. L'antimafia è sacrosanta. Ora però i siciliani vorrebbero qualcosina in più.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

giovedì 18 dicembre 2014

Italia corrotta. Ma non condivido il "gioco al ribasso" del dire no alle Olimpiadi del 2024. Sarebbe come chiedere a Cristiano Ronaldo di non giocare per non correre il rischio di infortunarsi



«Settimo comandamento: non rubare». Pausa, sorriso sornione, occhi furbetti a cercare la complicità del pubblico che intanto ride rumorosamente. Poi la battuta al vetriolo: «Dio questa regola l'ha scritta apposta per noi italiani, anzi: secondo me l'ha proprio dettata in italiano a Mosè». Durante il suo meraviglioso recital tv (spero alla Rai abbiano capito che non ci vuole poi molto ad assolvere al ruolo di servizio pubblico) Roberto Benigni ha invitato gli italiani a riflettere e a vergognarsi un po' di quello che questo Paese è diventato. Un invito sottotraccia, che non ha escluso nessuno, a partire da quei cosiddetti "onesti" che si incavolano davanti alle notizie del Telegiornale ma girano lo sguardo dall'altra parte se assistono a un fatto strano.
Mi hanno colpito le parole dell'ex Pm di Mani pulite Piercamillo Davigo: «Non hanno mai smesso di rubare, solo di vergognarsi». Trovo che sia una affermazione tostissima, simbolica quasi di un'evoluzione antropologica del potente che ne approfittava, ne approfitta e, ahimè, a questo punto continuerà ad approfittarne. «Nessuno mi ha mai offerto del denaro, non so quindi se sono onesto», disse qualcuno negli anni di Tangentopoli. Perché se è vero che l'occasione fa l'uomo ladro è anche vero che ogni esagerazione si trasforma in patologia. 
Qual è lo scenario oggi? Rassegnarsi ad uno stato di cose che tutti ci rappresentano come inevitabile? Non so rispondere, lo confesso. Noto però una rassegnazione preoccupante di fronte alle obiezioni che stanno venendo fuori sull'opportunità che Roma possa ospitare i giochi olimpici del 2024. Dopo la speculazione sui terremoti (sic!), dopo l'Expo, il Mose (e ovviamente Mafia capitale) il dubbio che la solita cricca possa approfittarne se serpeggia è perfino normale. Ma credo anche che la corruzione non si combatta col gioco al ribasso di chi sta dicendo no ai giochi olimpici. Perché così significherebbe allora che sarebbe meglio che Cristiano Ronaldo non giocasse più se vuole evitare di infortunarsi. 
Il punto vero, secondo me, è che in Italia non vige alcuna certezza del diritto. Dice un mio caro amico magistrato che basterebbe soltanto che in materia di corruzione un condannato scontasse regolarmente la pena, anche se questa fosse di una settimana, di quindici giorni, di un mese, o di due anni. L'assenza di una qualsivoglia espiazione (per condanne di pochi anni non si va in carcere) significa la mancanza del benché minimo deterrente. 
Tanto per provarci, intendiamoci. Perché chi ha smesso di vergognarsi di aver rubato (e di essere stato scoperto) non si vergognerà di nient'altro. Tanto più che la norma non obbliga nemmeno alla restituzione del maltolto. E poi se anche finisse in carcere, il ladro (soprattutto quello potente) riceverà sempre la visita di qualche parlamentare garantista dalla coda di paglia che magari lo andrà a trovare e a prenderne le difese.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

lunedì 15 dicembre 2014

Niente permesso a Totò Cuffaro di andare a trovare la mamma malata di Alzheimer. Il Giudice: «Tanto lei non lo riconoscerebbe». Sentenza rispettabile, ma motivazione discutibile


Non voglio commentare la decisione del Tribunale che ha negato a Totò Cuffaro (che fino al 2016 sconterà la condanna a 7 anni di galera per aver aiutato la mafia) la possibilità di andare a rendere visita alla madre ultraottantenne, malata di Alzheimer. Vorrei dire la mia solo sulla motivazione pronunciata dal giudice competente. 
Mi sembra che opponendo il diniego alla richiesta dell'illustre detenuto, il Tribunale abbia esagerato, andando ben oltre il ruolo che gli compete. Lo ha fatto nel significare che "la malattia svuota senz'altro di significato il colloquio", considerato "sarebbe pregiudicato un momento di soddisfacente condivisione". Insomma: la madre di Cuffaro non riconoscerebbe il figlio, dunque quella visita non serve. Non a lei, almeno. È l'opinione (che vale eccome) del giudice.
Penso che se il Tribunale si fosse solo limitato a dichiarare (cosa che peraltro ha fatto) che la visita di Cuffaro non è urgente perché la mamma non è in imminente pericolo di vita, avrebbe fornito una spiegazione secondo me difficilmente attaccabile. È la considerazione successiva che mi sembra essere andata oltre ogni ragione d'opportunità, rilevando sotto un profilo della sensibilità umana che, lo capisco, non può trovare spazio tra le pieghe delle carte giudiziarie, ma nell'anima degli uomini e delle donne che popolano questo disgraziato mondo dovrebbe forse trovarne. 
Tecnicamente la decisione del Ministro della Giustizia Andrea Orlando di chiedere una verifica ai suoi ispettori servirà a ben poco, lo sanno tutti. Politicamente, tuttavia, la trovo sacrosanta. Anche se non sono certo i simboli quelli che contano in un mondo, quello di oggi, che ci immola sull'altare della concretezza.
Ma un conto è aver negato a Cuffaro i servizi sociali, decisione evidentemente motivata, un altro conto è avergli negato di andare a trovare la madre ammalata sulla base di una motivazione che francamente mi fa venire i brividi, perché rivela una durezza di atteggiamento che alle Istituzioni non è richiesta. 
Perché l'incoscienza della mamma di Cuffaro forse è nella mente colpita dalla malattia. Non lo sarà mai nella sua anima. 

lunedì 8 dicembre 2014

Giornalisti vergognatevi. Quanta ipocrisia in quel prete di Santa Croce Camerina (che sapeva benissimo di venire registrato da quelle telecamere che lo "infastidivano")


"Vergogna". È stato così che il viceparroco di Santa Croce Camerina, tale padre Flavio Maganuco, si è lamentato pubblicamente davanti ai fedeli per la presenza in Chiesa, durante la funzione che stava celebrando, di telecamere e giornalisti. Naturalmente don Flavio sapeva bene che quel suo commento veniva registrato proprio da quelle telecamere, proprio da quei giornalisti. Trovo, dunque, che più o meno ipocritamente il prelato abbia quantomeno contraddetto se stesso, sempre che il suo "vergogna" sia stato sinceramente proferito.
Penso poi che sia un brutto lavoro quello del cronista. D'altronde in cinema e in letteratura il giornalista viene sempre rappresentato come un rompiscatole che non rispetta la privacy, che bussa alle porte alla ricerca di un dettaglio o di una dichiarazione, che cerca uno spunto per fare al meglio il proprio lavoro ed onorare i propri impegni. Spesso per pochi euro, intendiamoci, in un mondo quello di oggi in cui lo sfruttamento di questa professione è sempre più esagerato.
Ma sfugge ai più, naturalmente, che nell'esercizio di questo lavoro l'obiettivo è sempre quello di soddisfare l'interesse pubblico. L'omicidio di un bambino rientra decisamente in questo contesto. Certo, sta poi alla professionalità di ciascuno esercitare questo ruolo con senso della misura e della responsabilità. Ma quale categoria non ha pecore nere? Nessuna, neanche quella dei preti (ahimè).
Entrare in Chiesa per sentire cosa avrebbe detto il prete sulla tragedia del piccolo Loris era un normalissimo esercizio della libertà di stampa. Eppure padre Flavio questo non l'ha gradito. Certo, avesse detto qualcosa su questa immane tragedia, più che invitare i giornalisti a vergognarsi, avrebbe fornito un servizio essenziale non solo alla comunità cristiana, ma anche a quella laica, lanciando magari un messaggio ecumenico affatto banale, ricordando ad esempio che i bambini non si sfiorano neanche con un dito. Non ha fatto niente di tutto questo padre Flavio. Ha solo invitato solo i giornalisti a vergognarsi perché la comunità è stanca e arrabbiata. 
Quando l'assassino di Loris sarà arrestato il circo mediatico lascerà Santa Croce Camerina. Magari padre Flavio ne sarà felice. Ma padre Flavio dovrebbe ricordare ai suoi fedeli che c'è molto peggio della comunità "disturbata" dalla presenza dei giornalisti: il corpicino senza vita di Loris. Che non poteva aver fatto male a nessuno.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

Morire sul palcoscenico: tutti gli artisti sperano che quando sarà la propria ora accada così. Addio a Mango, professionista perbene e nemico dello showbiz

Dicono che sia il sogno di ciascun artista: quando sarà la loro ora sperano di morire sul palcoscenico. È accaduto a Mango. Un ottimo professionista dello spettacolo, nemico dello showbiz (pagandone le conseguenze) eppure assai più capace di tanti suoi colleghi osannati da stampa e discografia. 
Lo scorso mese di settembre Mango si è esibito a Ribera, a margine del Pizzafest. La sera del suo concerto il pubblico vide con i propri occhi la sofferenza fisica. L'artista interruppe il concerto, un'ambulanza lo trasferì all'ospedale di Sciacca per accertamenti. 
Nei miei inizi di speaker radiofonico lo programmavo spesso nelle mie trasmissioni. Trovavo che fosse un artista particolare, geniale a suo modo. Una sera di 25 anni fa un mio amico suo fan sfegatato costrinse l'intera compagnia ad andarlo a sentire a Bivona. Fu una serata bellissima.
Negli ultimi tempi ho scoperto tramite Spotify un album di cover di Mango. Un brano su tutti mi ha entusiasmato: l'esecuzione di "Canzone", successo di Don Backy eseguito con un meraviglioso arrangiamento. 
Gli artisti si salutano con il frutto della loro arte. E io lo faccio con questo brano.

venerdì 5 dicembre 2014

Mafia Capitale conferma che malaffare e politica non sono solo alleati ma facce della stessa medaglia


L'operazione "Mafia capitale" viene rappresentata dal mondo dell'informazione come una sorta di spartiacque nella lotta dello Stato contro la criminalità organizzata. Gli interessi economici, e la loro co-gestione attraverso un mondo della politica che più che complice appare protagonista principale, suscitano riflessioni diverse.
Si può dire che si registra, in particolare, una sostanziale parificazione tra delinquenza (tutt'altro che comune, ahimè) e politica. Checché qualcuno possa pensare che la predetta parificazione, alla luce di fatti che conosciamo tutti da tempo, fosse ormai da ritenersi scontata, al contrario a me appare come il vero elemento di novità che viene fuori in un mondo della corruzione sempre più dilagante, dimostrando non solo che la mafia ha bisogno della politica, ma che arriva a decidere al posto della politica. 
Prima che si apprendesse dell'esistenza stessa dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia si era sempre sempre immaginato che le connivenze, pur dannose e dagli esiti che tragicamente possiamo ripescare nella memoria collettiva, si fossero determinate con accordi inconfessabili tra la criminalità e solo una parte del mondo politico, quello (ovviamente) che gestiva il potere. 
Ma l'inchiesta di Roma sta clamorosamente superando questo concetto, e ci pone davanti ad un quadro drammatico, nel quale oggi non si arriva più a percepire alcuna differenza tra il criminale e il politico: figure non più distinte ma speculari. Se il processo sulla trattativa dovesse confermare il quadro accusatorio elaborato dalla Procura di Palermo, la parificazione sarebbe totale. È uno scenario preoccupante. 
Ma dobbiamo essere pronti eventualmente a prenderne atto e a riscrivere i libri di storia. E dovremo ammettere che il malaffare non ha mostrato differenze di schieramento politico. Ed è questo quello che deprime sul nascere ogni ipotesi di un mondo migliore per i nostri figli.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

martedì 2 dicembre 2014

Casapound a Sciacca e la strana, imbarazzante, ingenua sorpresa di chi non capisce il motivo di certe reazioni


Stupirsi dello stupore, sgranare gli occhi, cadere dalle nuvole, domandarsi perché e percome possa essere successo. Ma c'è assai poco di cui sorprendersi. Se uno zombie ci incontrasse al cimitero e fosse lui ad avere paura di noi, quello sì sarebbe sorprendente. Oppure potrebbe sorprendere se un uomo mordesse un cane (per ricorrere alla metafora più famosa usata dagli insegnanti di giornalismo).
Succede  a Sciacca nelle ore che precedono la conferenza di Alberto Palladino, noto con il nome di battaglia di "Zippo", uno dei capi di "Casapound" che farà da testimonial ad una iniziativa di solidarietà, qualcuno si sorprenda delle reazioni che ne stanno venendo fuori.  
L'iniziativa di Sol.Id for Gaza è incentrata sulla solidarietà, sulla conoscenza di alcune esperienze di volontari in favore di popoli oppressi del mondo. Ma se in questi giorni non si parla del contenuto dell'iniziativa come vorrebbero gli organizzatori forse la "colpa" è proprio loro. Il punto è che l'affiancamento di Casapound all'evento non era inevitabile, visto che la onlus è una diramazione diretta dell'organizzazione neofascista. Evitabile sarebbe stato probabilmente che il Comune concedesse l'utilizzo della Chiesa di Santa Margherita. Sarebbe stato appena sufficiente informarsi un po'. Si sarebbero così scoperte molte cose che avrebbero dovuto impedire, per ragioni di opportunità, la concessione dell'immobile comunale. E si sarebbero evitate tante discussioni. E anche questa ingenua sorpresa che è venuta fuori.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

"Qualunque cosa succeda". Una rappresentazione di due italie: da una parte quella cialtrona di Sindona, dall'altra quella nobile di Giorgio Ambrosoli


La fiction tv "Qualunque cosa succeda", con un magistrale Pierfrancesco Favino protagonista, è la rappresentazione implacabile e oserei dire perfino impietosa di due italie: da una parte quella cialtrona e figlia di puttana dei tanti Michele Sindona che hanno affollato questo Paese maledetto, e dall'altra quella nobile e pulita dei (pochissimi) Giorgio Ambrosoli, combattenti solitari mandati in trincea approfittando del loro senso del dovere.
Il film di Alberto Negrin ci racconta un pezzo della storia d'Italia, dove un uomo come Ambrosoli non poteva che affogare nella marmellata criminale (mafia, massoneria, speculazione, politica corrotta e chiesa deviata). 
Questa fiction sarebbe una bella lezione di storia per i nostri ragazzi, che ogni anno di questi tempi scoprono di possedere una coscienza civile applicata però esclusivamente all'occupazione delle scuole. Dubito, tuttavia, che siano stati tanti quelli che l'hanno vista. Onore a chi l'ha fatto. 
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...