domenica 27 novembre 2022

Da "Esterno notte" a "Il Dio disarmato": Moro tra ricostruzioni e legittime suggestioni artistiche

Nel suo film "Esterno notte", dedicato alla tragedia di via Fani e agli eventi privati e pubblici attorno al rapimento e all'uccisione di Aldo Moro, Marco Bellocchio propone una chiave di lettura che, alla ricostruzione storica, affianca anche alcune libere interpretazioni con evidenti e forse inevitabili finalità drammaturgiche. Questo fatto è stato oggetto di polemica, anche dalle nostre parti, da parte di personalità di primo piano di quella che fu la Democrazia cristiana di quegli anni, a cominciare dal mio amico onorevole Lillo Pumilia. A cui riconosco una straordinaria capacità di oggettivare i suoi ragionamenti, anche quando questi riguardino o esaminino persone o vicende a lui vicine.  

E, devo ammettere, onestamente non è mai stato accertato che Moro, in una confessione che sarebbe avvenuta nella "prigione del Popolo" a don Mennini, abbia detto al prete di odiare Giulio Andreotti (ancorché accusando, per questo motivo, un cristiano senso di colpa). E, d'altra parte, anche se la confessione ci fosse davvero stata, il segreto di quella confidenza non avrebbe potuto essere svelato se non violando forse il più monumentale dei precetti della religione cattolica. 

È un fatto passato alla storia, tuttavia, quello riguardante la decisione della famiglia Moro, che rifiutò i funerali di Stato. Che, per inciso, furono celebrati lo stesso ma in assenza del feretro in chiesa. Le spoglie mortali di Aldo Moro erano state benedette in cerimonia privata.

Così come è un fatto che fu scritto nero su bianco dallo statista (accusato anche per questo fatto di non essere più lucido a causa della sua prigionia) "Il mio sangue ricadrà su di loro", riferendosi espressamente ai capi del suo partito, che con la "linea della fermezza", avallata dal PCI, di fatto lo condannarono a morte. Da appassionato di cinema, ho apprezzato la ricostruzione scenografica, la regia (sul piano tecnico) e le prove di altissimo livello degli attori del cast, a partire da quella di Fabrizio Gifuni. La parte del film relativa alla ricostruzione per così dire "fantasiosa" da parte di Marco Bellocchio personalmente non la ritengo scandalosa. Sì, in alcuni frangenti forse è forzata, e non sarò certamente io a negare che possa in qualche maniera risentire di possibili condizionamenti ideologici dell'autore. Quella di Bellocchio però rimane, in ogni caso, una chiave di lettura legittima, compresa la suggestione del finale che non è stato, quello di Moro vivo (sperato da Cossiga)
, che apre gli occhi ed esce dal cofano della Renault 4 parcheggiata in via Caetani incamminandosi verso un futuro che, invece, nella realtà era già stato interrotto. Non si possono pretendere da un film rigorosissime ricostruzioni fattuali. Tanto più che ci sono fatti rimasti tuttora senza spiegazione. Per le ricostruzioni fattuali ci sono i documenti e i documentari.  

Qualche giorno fa ho presentato a Sciacca, invitato dalla mia amica Ornella Gulino della libreria Ubik, un libro sul caso Moro. Si intitola "Il Dio disarmato", di Andrea Pomella, pubblicato da Einaudi. Sul piano della collocazione dei fatti ci fermiamo solo a via Fani. Ma se ci si chieda in quale altro modo, dopo tutti quelli a cui scrittori, giornalisti e storici hanno fatto ricorso in 44 anni, sarebbe stato possibile raccontare l’agguato di via Fani, io credo che la risposta sia proprio in questo libro. Nel quale l’autore attraversa più volte, e con una scrittura potente e intensa, i 3 minuti di quello che, citando il titolo della grande inchiesta televisiva di Sergio Zavoli, è stato il momento più buio della “Notte della Repubblica”. E, d’altronde, il grande giornalista dedicò ben 3 delle 18 puntate di quel programma che, parlo da giornalista, avrebbe dovuto, così come dovrebbe ancora, fare parte della materia storica dell’istruzione pubblica. 

Una delle preoccupazioni nelle presentazioni di un libro, soprattutto se si tratta di un romanzo, è il cosiddetto rischio che venga “spoilerato” il finale. Non è questo il caso. Eppure, leggendo, ed è merito dell’autore, in qualche frangente sembra che debba succedere sempre qualcosa di diverso dalla linea temporale a tutti conosciuta. Ma, evidentemente, sul caso Moro c’è ben poco da spoilerare, lo sappiamo tutti, la successione dei fatti è entrata nella cronaca e nella mente di tutti noi. 

Volendo rappresentare le analogie storiche con le vicende internazionali, e con i drammi vissuti da altre democrazie, potremmo dire che il caso Moro è stato uno dei nostri “11 settembre”, anche se secondo me è stato il nostro “22 novembre”, la data dell’assassinio a Dallas di John Kennedy. Dico questo perché, pur guardando da sempre con il più razionale dei disincanti possibili alle cosiddette “teorie del complotto”, credo che sull’omicidio del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro troppi punti oscuri, non a caso sfuggiti a testimonianze e ammissioni di responsabilità, siano tuttora rimasti oscuri. 

Ma attenzione: non è di questo che si occupa Andrea Pomella nel suo libro (a parte un cenno alla inquietante minaccia di Kissinger a Moro sull’impegno di quest’ultimo a far "convergere le parallele" tra i due grandi partiti di massa). Certo, non può restare estranea alla narrazione dell'autore la simbologia del governo Andreotti che proprio quella mattina avrebbe dovuto presentarsi alla Camera per il primo governo, quello della “non sfiducia” da parte del Pci.

No, l’autore affianca ai fatti storici quello che considero un interessante “gioco del tempo”, cosa che solo un autore documentato, rigoroso a conoscenza dei fatti è in grado di fare, smontando e ricomponendo a più riprese la linea cronologica, spostando ora avanti, ora indietro, le lancette dei singoli eventi, offrendoci una successione apparentemente innaturale di prospettive inevitabilmente inedite, perché sono quelle degli occhi e dei sensi di chi ha vissuto personalmente quella tragedia, comprese le vittime, a partire dagli uomini della scorta di Moro, la cui parte in questa storia si trasforma in una specie di sublimazione non certo solo filosofica del protettore sprovvisto a sua volta di un protettore.

Ecco la parte del libro che lo rende unico. Voglio invitarvi a leggere, in tale direzione, quello che Andrea scrive nella sua nota dell’autore a fine romanzo. “Esistono tre verità riguardo ad uno straordinario avvenimento di sangue accaduto nel passato: una verità storica, una giudiziaria e una – più sfuggente – che ha a che fare con la percezione individuale e collettiva”. È effettivamente di quest’ultima quella di cui Andrea Pomella si occupa. Lo fa con delle ipotesi narrative suggestive ma assolutamente verosimili, con lo stile del romanziere che mette a disposizione del racconto non tanto la fantasia, quanto l’immedesimazione vera e propria. Ci racconta, Pomella, l'uomo e le sue emozioni. In un libro il meccanismo è diverso da quello di un film. Ma anche qui c'è la fantasia.

Entriamo così nel privato di Aldo Moro, raffreddato e insonne, con la testa ai suoi studenti ma anche ai figli, alle prese con un rapporto da “nonnetto” con il nipotino Luca, di cui tornerò a parlare tra poco. Entriamo nella vita di chi ancora oggi, attraversando la zona di Roma tra via Stresa, del Trionfale e, naturalmente Fani, si imbatte nella lapide commemorativa di quella tragedia. Entriamo nella vita di chi ci passò nel 1978, di chi come lo stesso Andrea c’è tornato mentre Marco Bellocchio allestiva il set del film “Esterno notte”. Entriamo nelle vite degli uomini della scorta, di quella del maresciallo Leonardi, così come nelle vite di Eleonora Moro, la rigorosissima moglie del presidente, che cerca di proteggere per come può la parte privata della vita del marito. Una specie di “loop” che Andrea propone e ripropone, permettendoci di entrare per un momento nella vita di chi passò da quelle parti, di chi prima si accorse di qualcosa di strano e di chi dopo assistette al drammatico spettacolo della tragedia.

Voglio concludere con un riferimento al piccolo Luca, il figlioletto di Fida Moro, colei che più di chiunque altri presagiva la tragedia. Ecco, io attribuisco alla figura di Luca quella del vero protagonista di questo romanzo. Intravedo, nel rapporto privilegiato tra il nonnetto e il nipote, che ci sia un lascito testamentario di tipo culturale e religioso. D’altronde, recentemente, Luca a precisa domanda su chi possa essere una sorta di nuovo Moro tra le personalità politiche dell’attuale panorama nazionale, ha detto: “io accosto mio nonno solo a Gesù”.

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