domenica 14 novembre 2021

Se del tatticismo esasperato si è stufata perfino "la maggioranza silenziosa" c'è di che preoccuparsi

Stride, nella politica odierna, quella del tatticismo esasperato, la presa di posizione di Sergio Mattarella. Che ha già fatto sapere di non intendere succedere a se stesso al Quirinale. Neanche per un mandato bis breve, nell'attesa che i "fuoriclasse" della contesa politica odierna possano mettersi d'accordo sul prossimo presidente o che possano insanguinare (le avvisaglie ci sono tutte) la campagna elettorale per le Politiche del 2023. 

Emerge, in questo quadro, una saggezza che il presidente Mattarella ha reso sempre più palpabile, rendendone evidente una personalità talmente discreta da rivelarsi lontana anni luce da un agone in cui i cosiddetti "leader" si atteggiano a superstar e i loro cortigiani a fans scatenati, disponibili a tutto pur di eccellere in qualsiasi virtù cortigiana, a partire da quelle meno nobili. 

Nel dire no alla sua stessa rielezione, il capo dello Stato è andato oltre, riprendendo una posizione già espressa da uno dei suoi predecessori più discussi, quel Giovanni Leone che aveva invocato una (condivisibile) modifica alla Costituzione nella direzione di impedire l'ipotesi stessa di un secondo mandato al presidente uscente, anche per superare quel semestre bianco nel corso del quale non possono essere sciolte le camere. Prescrizione che, in un Parlamento parcellizzato come quello italiano, è sicuramente un punto debole che rende ancora più anacronistica la nostra stessa forma di Stato. 

La prima volta che si era presentata l'ipotesi di un secondo mandato in Italia fu nel 2013, quando Giorgio Napolitano si vide costretto (a denti stretti) a prolungare il suo settennato. Nel 2015 sarebbe arrivato al Colle Sergio Mattarella. Il resto è storia nota. Così come nota è la paradossale ambizione di Silvio Berlusconi di essere eletto come suo successore. 

La sceneggiatura della storia politica italiana prevedeva che dopo Mattarella (e a seguito di una parentesi a Palazzo Chigi) al Quirinale dovesse andare Mario Draghi. Di cui probabilmente, però, ci sarà bisogno ancora come guida del governo. Difficile fare previsioni, mi guardo bene anche io da questo esercizio di stile del quale sarei soltanto l'ultimo di una lunga lista.

Ma è il tema del tatticismo esasperato quello su cui, in conclusione, voglio soffermarmi. È, quella nella quale viviamo, la politica delle mosse più o meno a sorpresa, con un'azione fatta presumendo di conoscere anzitempo la reazione dell'avversario, nel tentativo esclusivo di metterlo in difficoltà o di tarparne le ali. Una fenomenologia non certo nuova, intendiamoci. Tuttavia, se in passato il gioco delle parti vedeva protagoniste personalità dallo spessore culturale indubitabilmente più robusto, oggi siamo di fronte a un cast di quelle che un tempo non avrebbero avuto nemmeno la dignità delle terze linee. 

Il tatticismo ha reso la politica (purtroppo a tutti i livelli) sempre più autoreferenziale e distante dal sentire comune. E per sentire comune non intendo certamente le cortigianerie ma, piuttosto, quella che un tempo veniva definita "maggioranza silenziosa", quella composta da tante persone che chiedono soltanto le cose normali. I dati sull'affluenza alle urne (adesso precipitati perfino a livello locale, cosa che secondo me deve preoccupare) ci dicono che perfino la maggioranza silenziosa si è stancata di questi politici che giocano a scacchi e puntano sul carrierismo. È a loro che Sergio Mattarella ha inflitto una lezione di eleganza. 

giovedì 14 ottobre 2021

L'astensionismo anche nei comuni accumula altra polvere sulle tesi sul bene comune di Platone e Montesquieu


Le ultime elezioni amministrative hanno confermato un fenomeno che, purtroppo, continua ad essere colpevolmente sottovalutato: l'astensionismo. La quantità di persone che periodicamente preferiscono rinunciare ad esercitare il proprio diritto è in preoccupante aumento. Se da un lato c'è chi sostiene che questo sia (più o meno paradossalmente) un fatto che in qualche maniera conferma la percezione popolare di un'architettura democratica che non corre alcun pericolo, dall'altro ciò che accade non può non suscitare più di un interrogativo sulla sostanziale disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni e sulle ragioni che la determinano. 

Disaffezione che appare orientata chiaramente verso un senso di sfiducia e stanchezza nel riporre una qualche speranza in un modello di cambiamento del sistema a partire, essenzialmente, dalla sua capacità di tornare a dare qualche risposta. Speranze che vengono puntualmente disilluse. 

In una visione la più possibile obiettiva della questione, è urgente riflettere sul fatto che se fino a pochi anni fa l'astensionismo era il segno di un malessere oggettivo che, tuttavia, risparmiava ancora gli enti locali, avamposti residui della compiutezza del rapporto tra il cittadino e il suo amministratore, sublimandosi soprattutto nel rinnovo delle assemblee elettive regionali, nazionali ed europee, oggi purtroppo la tendenza a starsene a casa sembra riguardare sempre di più anche la dimensione strettamente civica. 

Non si può negare che questo accada anche perché negli ultimi 20 anni i comuni hanno dovuto gestire perennemente le emergenze, costretti ad arrabattarsi con sempre minori risorse economiche a propria disposizione. Una situazione originata da una "devolution" alla quale il Paese non era preparato, sconoscendone metodiche e soprattutto effetti. A questo si aggiunga che ormai i comuni sono letteralmente svuotati di impiegati, e il tentativo di correre ai ripari è quello, per essere chiari, di cercare di svuotare una vasca da bagno con uno scolapasta. 

In questo quadro, e in considerazione del fatto che a votare adesso anche per le elezioni comunali ci va poco più del 50% degli aventi diritto, quella che viene fuori è l'immagine di una classe politica sempre più autoreferenziale, dove a spadroneggiare sono i cosiddetti "gigli magici", con l'immancabile arena fatta di contrapposizioni politiche (soprattutto personalistiche) che, ad eccezione delle rispettive cortigianerie di chi governa e di chi sta all'opposizione, interessano assai poco il resto della collettività. Che, dal canto suo, appare a dir poco sfiduciata, rassegnata, frustrata e repressa, con i suoi cittadini che guardano ai fatti della vita pubblica della propria comunità più o meno svogliatamente, incapaci di comprendere fino in fondo quella che talvolta appare come una stravagante e inconcludente polemica il più delle volte fine a se stessa, dove "meriti e abilità" da una parte, e "colpe e responsabilità" dall'altra, inducono a pensare che alla fine quelle che vengono fuori sono soltanto chiacchiere (e senza neanche il distintivo).

D'altronde se la filosofia politica da sempre incentra le sue tesi di studio sulla possibilità che chi amministra possa compiere delle scelte come sublimazione del bene comune, è purtroppo anche vero che tutto questo oggi non è più possibile. Le scuole di Platone e Montesquieu sono da decenni riposte nel cassetto a prendere polvere. Oggi se un comune non è più in grado di rispondere alle esigenze primarie di un territorio (le strade, l'acqua, la spazzatura e i servizi) le ragioni sono diverse, e purtroppo solo in parte attribuibili alla capacità o all'incapacità del singolo amministratore, visto che (per dirne una) i livelli sovracomunali di governo, ancor più autoreferenziali, per rispondere all'invocato taglio dei costi della politica intervengono riducendo il numero di consiglieri comunali eletti nella singola municipalità. Pur sapendo che un consigliere comunale eletto percepisce meno di 20 euro a seduta, mentre l'indennità di carica degli amministratori, al netto della assurda demagogia  attorno a questo argomento, è a dir poco ridicola. 

E così, le risposte fornite non solo sono assolutamente lontane dal raggiungimento dell'obiettivo (nella fattispecie, ripeto, quello di abbassare i costi della politica), ma rendono i comuni stessi ancor più ingovernabili, riducendo vertiginosamente la forbice che separa i numeri della maggioranza e quelli dell'opposizione, in una condizione nella quale è sufficiente lo spostamento di appena un paio di posizionamenti in consiglio che improvvisamente il sindaco in carica si ritrova già senza più una maggioranza che gli permetta di andare avanti. 

La domanda che a conclusione di questo ragionamento viene da porsi è: ma che senso ha mettersi in gioco per cercare di amministrare una città? Se la ragione è la vanagloria personale ci può anche stare. Ma serve a poco, perché la disillusione è dietro l'angolo, anche per se stessi. Perché oltre alle contumelie degli avversari, pochi giorni dopo la vittoria elettorale inizieranno anche i malumori dei propri sostenitori. E alla fine la vanagloria sarà stata soltanto come il maggiordomo dei film gialli: il colpevole del fallimento. 

martedì 31 agosto 2021

Fazello tra gli autori de "La Strada degli Scrittori" è un omaggio all'identità culturale di una città che si accapiglia per niente

Che anche Tommaso Fazello, frate domenicano e storico della Sicilia, sia entrato nel novero di autori de "La Strada degli Scrittori", permettendo da adesso anche alla città di Sciacca (di cui fu nativo) di far parte di questo importante itinerario culturale, è una notizia che non merita certo di essere liquidata con poche battute. L'omaggio che l'istituzione creata dal giornalista e scrittore Felice Cavallaro (a cui la città deve sin da subito un riconoscimento) ha ritenuto di assegnare a Sciacca (un tempo Città Degna) è un valore aggiunto, assai più di quanto la nostra litigiosa città possa al momento rendersi conto, essendo "in tutt'altre faccende affaccendata". Studioso insigne, a Fazello si deve anche la scoperta dei luoghi greci di Sicilia, tra cui Selinunte, Eraclea Minoa e il Tempio di Zeus Olimpio di Akragas. 

Lo spunto mi è particolarmente congeniale perché mi permette di richiamare ancora una volta il senso dell'impegno culturale di un territorio, come quello siciliano, che nel tempo ha espresso parte del miglior panorama letterario nazionale e internazionale (ed è perfino superfluo ricordare che l'agrigentino Luigi Pirandello è stato Premio Nobel). Il tema centrale che meriterebbe un approfondimento molto articolato riguarda comunque la consapevolezza di quello che siamo, più che di quello che abbiamo.
 
Purtroppo un territorio che vive tanti problemi genericamente riferibili alla sua (scarsa) qualità della vita, non riesce ad attribuire alla Cultura quel ruolo di faro perennemente acceso sulla reale natura dell'umanità, che è quella di conoscere la storia del mondo, apprezzandone le arti e valorizzandone la bellezza. È una comunità, la nostra, che si accapiglia per ben poco, anzi per niente (per citare Franco Battiato, un altro fulgido esempio dell'arte siciliana). Per esempio in difesa di due alberi che impediscono di apprezzare quel capolavoro dell'arte quattrocentesca che è il Portale marmoreo scolpito da Francesco Laurana. 

Poi è una città che si accapiglia molto per il Carnevale, ma la chiudo subito qui perché tutte le volte che ne parlo vengo puntualmente frainteso sul ruolo che, eppure, io per primo attribuisco a questa manifestazione. Sciacca è terra di artisti, pittori di altissimo spessore, di iniziative culturali che si riuscivano ad organizzare (Un Punto nel Mediterraneo la più celebre) che poi non si sono più organizzate.

Negli ultimi anni, anche per "colpa mia", le presentazioni di libri (organizzate anche come iniziative di intrattenimento) hanno catalizzato l'attenzione di una larga fetta dell'opinione pubblica, grazie anche all'amplificazione (che personalmente considero impagabile) fatta dal Letterando in Fest, l'invenzione di Sino Caracappa che ha reso Sciacca una importante stazione della riflessione condivisa e dello scambio di idee, consentendo al pubblico di interfacciarsi con personalità di assoluto rilievo del panorama editoriale. 

Mi soffermo su questo argomento per dire che le presentazioni di libri non hanno certamente sostituito gli altri (necessari) interventi programmabili nel mondo dell'intrattenimento (musicale o teatrale). Sono diversi i target, diverso è lo stile, diverse le finalità. Rimangono, tuttavia, degli appuntamenti che qualificano solo per il fatto di esserci la sostanza culturale stessa di una comunità, rimarcandone la scelta, esaltandone la valenza identitaria e, di conseguenza, respingendo una possibile scelta diversa, che è sostanzialmente quella dell'accidia culturale, di un'indolenza caratteriale che, di fatto, continua a mortificare molte delle anime di una Sicilia che, eppure, ci vede in qualche maniera discendenti di Pirandello, di Sciascia, di Rosso di San Secondo, di Tomasi di Lampedusa, di Camilleri, di Russello e, naturalmente, anche di Tommaso Fazello.



venerdì 20 agosto 2021

Madamina, il catalogo è questo: la deriva di una società di cortigiani risentiti e di politici permalosi


Farò delle considerazioni impopolari. Ma se significa non seguire l'onda, francamente ne vado orgoglioso. La deriva sociale e politica, dal livello romano a quello locale, assume ogni giorno connotazioni sempre più tangibili e preoccupanti per la tenuta (ritengo) delle fondamenta stesse della democrazia. Lo rivela un dibattito nel quale tanti protagonisti (quelli che tradizionalmente corrispondono quasi sempre a chi non ha responsabilità di governo) si fanno più o meno abilmente interpreti del malcontento. Sarebbe legittimo se questo fosse solo uno degli ambiti d'azione. Tuttavia oggi questo fenomeno sembra essere assurto all'unico ambito d'azione possibile. 
Una autentica sublimazione della politica barricadiera è manifestata da un leader politico (Matteo Salvini) che riesce ad interpretare contemporaneamente il soggetto e l'oggetto della protesta, calando la sua Lega nel ruolo di "partito di lotta e di governo", all'inseguimento tattico della crescita del suo partner più importante nello schieramento, Fratelli d'Italia. Io non lo critico per questo. Anzi: se il politico deve interpretare il sentimento prevalente, stando almeno ai sondaggi, bisogna ammettere che Salvini riesce nell'intento. Poi si potrebbe opinare che in politica si dovrebbe costruire, ma è chiaro che chi si limita a distruggere riesce assai più facilmente ad eccitare gli animi e a permettere al cittadino vessato dalle difficoltà (a partire da quelle strettamente personali) di potersi in qualche modo sfogare. Nel segno dell'adagio che "chi ha problemi ne crea agli altri".
Non si può non ribadire ancora una volta che i tempi sono cambiati, e che rispetto al passato, l'avvento della tribuna social (che, ce ne dimentichiamo spesso colpevolmente, annovera solo una minoranza di quello che in modo ridondante definiamo "il Paese reale") cannibalizza il dibattito, con il politico di turno che arringa la folla, cavalcando i problemi, accusando chi pur avendo il potere non li risolve, galvanizzando l'insoddisfazione popolare e annettendola presso la propria fazione. 
Succede anche a livello locale. Attenzione però: il fenomeno è pericoloso. Perché siamo nell'era della polemica "fast food", che viene dimenticata poche ore dopo avere accumulato i like dei cortigiani e le emoticon sghignazzanti degli avversari. Che strano fenomeno le faccine che ridono su notizie talvolta perfino drammatiche. 
Da tutto questo discende un fenomeno bizzarro. Quello di un dibattito politico nel quale se chi governa invoca comprensione per la difficoltà del ruolo che ricopre, chi è minoranza getta benzina sul fuoco delle polemiche e dell'insoddisfazione popolare. E quando le parti si invertono, il brogliaccio della messa in scena rimane lo stesso. Semplicemente gli attori cambiano posizione sul palco. Con la variabile (buona per tutte le stagioni) che chi vince le elezioni chiarisce al popolo in attesa della rivoluzione di non potere fare granché per migliorare le cose perché (figuriamoci) ha ricevuto la peggiore delle "eredità" politiche possibili da chi c'era prima. 
Una spirale infinita, alimentata dall'odio social e dalle ricette vincenti che, tuttavia, sono vincenti solo se e quando non possono essere utilizzate. Quelle di chi governa (manco a dirlo) sono "ricette perdenti". Ma, per dirla con il Leporello del Don Giovanni di Mozart, "il catalogo è questo". E per restare nelle nostre umili contrade, dall'acqua pubblica alle buche per strada, dalle transenne alla tassa sui rifiuti, dalle Terme alle manifestazioni estive, il cittadino viene tirato per la giacca delle proprie ragioni. Che, il più delle volte, sono esclusivamente ragioni elettorali. Ce ne stiamo accorgendo in questi giorni. Nessuno che dia una mano, nessuno che proponga soluzioni reali. Spiace generalizzare, perché in effetti qualcuno che si sforza di operare in maniera opposta c'è, ma è anche vero che, purtroppo, viene regolarmente isolato all'interno del suo stesso schieramento. 
Non bisogna scomodare Nostradamus per prevedere che, di questo passo, anche le prossime elezioni amministrative di Sciacca si giocheranno sull'atavico (inutile, ahimè) confronto tra "prima" e "dopo". Dove la vera memoria alla fine interessa soltanto i protagonisti e il loro amor proprio. I fatti personali surclassano quelli politici, la propria immagine si rivela più importante del bene della comunità. Magari è un fenomeno involontario, ma è quello che si percepisce. E così, uno come me che guardava alla politica con il rispetto dell'arte del possibile (e del compromesso), si vede costretto ogni giorno a raccontare la deriva infinita del "tutti contro tutti", con i rispettivi "gigli magici" a supportare le tesi dei propri capi.
In conclusione: so già che questo mio ragionamento verrà interpretato come una dissertazione che alla fine trascura l'oggettività dei problemi in essere. Non mi sottraggo. I problemi ci sono eccome. La nostra comunità sta attraversando una fase preoccupante, un abbassamento della qualità della vita a dir poco drammatico. Una fase nella quale però le responsabilità dei cittadini non vengono stigmatizzate a dovere da nessuno. E se lo fa qualche giornalista scatta il dalli all'untore (in era Covid la metafora si attaglia). Per dire: la città è sporca. Ma chi denuncia che la città è sporca, oltre ad invocare la pulizia dovrebbe anche criticare chi la città l'ha sporcata. Per dire ancora: non vedo politici additare con la determinazione necessaria i tanti evasori dei tributi, probabilmente perché è chiaro che poi a queste persone bisogna pur andare a chiedere il voto. Provo a chiarire un concetto che non mi riesce di far passare: sogno un mondo in cui la gente finalmente capisca che i luoghi comuni vanno difesi come se fossero il salotto di casa, indipendentemente dalle telecamere; sogno una comunità che non parcheggi dove gli pare, indipendentemente dal fatto che mancano i parcheggi. Poi non trascuro che i servizi minimi essenziali non funzionano, e che è una vergogna che i cittadini (prima dei turisti) debbano muoversi tra erbacce, buche e lurdìe varie.
Le responsabilità politiche di chi amministra sono oggettive, ma i limiti di una macchina burocratica comunale già obsoleta si sono aggravati con lo svuotamento degli uffici, alimentato anche da provvedimenti discutibili (come la tanto decantata da Salvini "Quota Cento"). C'è una realtà assai complessa, che non può essere tagliata con l'accetta magari facendo il giro della città e fotografando le buche e le transenne. Oltretutto i protagonisti "siedono tutti in pizzo": da un lato c'è l'assessore permaloso, dall'altro c'è l'ex consigliere che se l'è legata al dito. Così come se l'è legata al dito il presidente della Regione. Che, per i problemi che sta affrontando, aggravati dall'emergenza Covid, ha tutta la mia solidarietà. Tranne per il fatto che, dopo 4 anni, non può continuare a dare la colpa al precedente governo. 

lunedì 9 agosto 2021

La vera verità di regime è che sui vaccini il governo è ostaggio della spregiudicatezza

Perfino un giornalista di provincia come me viene accusato, da qualche tempo, di sensazionalismo mediatico e di linea editoriale che, in qualche maniera, sarebbe asservita a fantomatici potentati farmaceutici. Come è facile intuire il tema riguarda la campagna vaccinale. La tesi, propugnata nel segno di un fanatismo sempre più esasperato, è che il Covid sia soltanto un bluff, che i vaccini per cercare di riconquistare la nostra tanto amata libertà siano ancora ad un livello sperimentale e, dunque, pericolosi per la vita, assai più (evidentemente) di quanto non lo sia quella famigerata polmonite interstiziale che (soltanto in Italia) ha causato 128 mila morti. 

Sarà sfuggito, a Big Pharma, il mio Iban, perché (ad oggi) non ho ancora ricevuto un centesimo derivante dal mio presunto asservimento alla cosiddetta "verità di regime" (concetto utile un po' per tutto, un po' come il prezzemolo). E vai di "Circo mediatico", "Terrorismo giornalistico" e di tutto il resto di quell'armamentario brandito da soggetti in crisi di fantasmi, che invocano raziocinio e analisi "oggettive" di statistiche e casse da morto tra una seduta spiritica e una preghiera alla Madonna, dubitando sdegnati dei benefici del vaccino, schifati da "ciò che c'è dentro", sputando sentenze da "laureati all'università della vita" magari mentre si abbuffano di cozze di dubbia provenienza o (naturalmente) credendo alla leggenda metropolitana che l'attore Morgan Freeman sarebbe in realtà il grande chitarrista Jimi Hendrix, la cui morte (come quella di Elvis o di Jim Morrison) sarebbe una colossale messa in scena.

Entriamo nel dettaglio. A noi che raccontiamo la vita di tutti i giorni ci viene chiesto sostanzialmente di "barare", smettendola di ricordare continuamente che i morti sono solo i non vaccinati, eccependo (in punta di idiozia) che anche i vaccinati muoiono. Il principio di fondo è chiaro: chi si vaccina muore di certo perché è quello che provocano i vaccini, mentre chi non si vaccina, se proprio muore, è solo per colpa del destino cinico e baro. È la verità a proprio uso e consumo, come se si ordinasse una pizza al bar. E quindi dovremmo censurare le notizie diramate da fonti certe e verificate (i giornalisti iscritti all'Albo devono obbedire a questa norma, gli opinionisti di Facebook laureati all'università della vita non hanno certamente alcun obbligo).

Sarebbe interessante un'analisi sociologica sul ricorso al "Green Pass farlocco" da parte di chi si erge a paladino di un principio (nella fattispecie quello "no-vax") non disdegnando al tempo stesso una truffa ai danni del prossimo (con tanto di ipotesi di reato di epidemia colposa) pur di entrare al ristorante o di non perdersi l'ultimo cocktail. Su questo proverò a cimentarmi prossimamente. Oggi è più urgente affrontare il contenuto dell'articolo 32 di quella Costituzione della Repubblica Italiana che tantissimi "professori di Diritto" da quattro soldi invocano come la ricetta vincente della loro strampalata opinione. 

Il predetto articolo recita testualmente: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.". Se la prima parte fuga ogni dubbio circa l'ipotesi di negare le cure del SSN a chi, ultranegazionista, si trovasse ad avere a che fare con "la fame d'aria", la seconda è di una chiarezza innegabile. I padri costituenti ipotizzarono trattamenti sanitari obbligatori "se non per disposizione di legge".

Ed eccoci, così, alla parte più debole di questa battaglia contro il Covid. Il tanto vantato governo Draghi, modello internazionale anziché no, sta rivelando la propria fragilità politica rispetto alla questione tra le questioni. Perché non rendere la vaccinazione obbligatoria, tra balbettii e timori che perfino la straordinaria autorevolezza del premier non riesce a sfumare, sta rendendo completamente inutile il senso civico e morale (per dirla alla Sergio Mattarella) di chi ha deciso di farsi somministrare il vaccino. Un governo che, sul Covid, è letteralmente ostaggio dell'espressione più cinica e spregiudicata di un populismo (quello rappresentato da Matteo Salvini) che sta di fatto impedendo al Paese quella rinascita propugnata evidentemente soltanto a parole. 


L'incertezza del governo sull'obbligo di vaccinazione per gli insegnanti, e il disinteresse nei confronti delle aziende (hanno ragione i sindacati, non è possibile affidare la questione ad un banale principio discrezionale) rivelano una timidezza sconcertante, col pericolo di rendere vani i sacrifici fatti e di riempire nuovamente (a breve) tutti i posti letto e le terapie intensive disponibili, proprio quello scenario che rischia di indurre i sanitari a "scegliere chi salvare". Ecco qual è la situazione attuale. 

Infine i fatti. Quelli su cui si basa chi lavora nell'informazione. Le notizie sono notizie. Giornalisticamente è inevitabile riferire se i deceduti negli ospedali (a proposito, la loro età è ogni giorno più bassa) fossero persone vaccinate o meno. Un po' pochino per considerare un giornalista "assoldato" alle aziende farmaceutiche o alla "verità di regime" o a quella "dittatura sanitaria" che, specialmente se lamentata da "Fratelli d'Italia" (quelli col simbolo del vecchio M.S.I. D-N) o da "Forza Nuova", non può che sollevare la più drammatica delle ironie possibili di una storia vergognosa fatta di annullamento di ogni diritto, di assassini più o meno politici e di sostegno alle leggi razziali. 

Questo articolo, per quello che vale, è dedicato a tutti gli operatori sanitari del servizio pubblico che si sono dedicati anima e corpo a combattere contro la pandemia. 

lunedì 26 luglio 2021

Di Cesare Pavese e del suo insegnamento a non fare troppi pettegolezzi

"Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". Fu questo il contenuto del biglietto che il 27 agosto 1950 Cesare Pavese fece trovare accanto al suo corpo senza vita. Aveva deciso che non poteva esserci più posto per lui nell'esistenza. Il suo irripetibile genio, neanche quello più razionale, non ebbe la meglio sulla sua infelicità. Affidò ai barbiturici il congedo drammatico dal suo mestiere di vivere. Aveva solo 42 anni. 

"Non fate troppi pettegolezzi", dunque. Nel momento più difficile della sua vita Cesare Pavese trasse lo spunto, con tragica, inarrivabile ironia, per stigmatizzare il più secolare degli esercizi di stile. Immaginando come una cosa drammaticamente normale, che di fronte al suo suicidio i suoi cari, ma anche i suoi lettori, coloro che ne avevano ammirato l'eloquio e l'impegno politico (antifascista), limitassero al minimo indispensabile le inevitabili elucubrazioni sulle ragioni del suo definitivo gesto.

Non c'è dubbio che la notizia di un suicidio susciti, piuttosto inevitabilmente, scalpore e curiosità diffusa nella pubblica opinione. Ho scelto da tempo, come giornalista, di non attribuire a quello che probabilmente è il fatto più privato che ci sia nell'esistenza di un uomo o di una donna, una valenza di interesse pubblico. Generalmente nei nostri telegiornali non ne parliamo. Onestamente non siamo i soli, anche altri colleghi e altre testate hanno fatto questa scelta. 

Certo, può accadere di doverci occupare di un fatto di questo tipo per ragioni diverse e contingenti (se, per dire, le circostanze riguardino un personaggio pubblico ovvero, ad esempio, se si tratti del fatto di cronaca di qualche settimana fa a Ribera di un omicidio-suicidio). È, la nostra, una forma di autocensura che trae spunto proprio dal contenuto del biglietto di Cesare Pavese. Perché se la curiosità pubblica è antropologica per antonomasia, adattare i celebri 5 precetti del giornalismo (Chi, Che cosa, Dove, Quando e Perché) ad un caso di suicidio è un esercizio superfluo sia nei confronti di chi ha preso la decisione di suicidarsi, sia in quelli di chi lo ha amato, che evidentemente si struggeranno fino alla fine nel tentativo di capire e, probabilmente, nel senso di colpa di non avere capito. 

Non è vero che non esiste via d'uscita al diritto di cronaca. Il diritto di cronaca deve inevitabilmente confrontarsi con la dignità della persona. A che cosa serve, dunque, sprecare inchiostro in congetture di cui nessuno, se non la vittima, sarà mai in grado di stabilire la sostanza? Se il giornalismo è chiamato a rispettare la verità, allora di fronte alla tragedia di un suicidio è chiamato a rispettare tanto di più. Scegliendo la via della discrezione. Onorando la memoria di chi non ce l'ha fatta più, condividendo (per quanto possibile) la disperazione di chi è rimasto a piangerlo. Sapendo che, ahimè, non c'è più rimedio. Tutto il resto è totalmente superfluo. 

martedì 20 luglio 2021

I leader che lisciano il pelo dei No-Vax offrono la cifra della pochezza culturale in cui è precipitato il Paese

Trovo a dir poco stupefacente la piega che ha preso il dibattito sull'emergenza sanitaria e sulla campagna vaccinale in Italia. L'assimilazione della questione a una contrapposizione "democratica" tra opinioni diverse e di cui, soprattutto i no-vax, invocano una specie di legittimazione pubblica, suggella l'esistenza di una patologia che, invero, non appartiene solo all'Italia. E dire che una certa politica negazionista ha visto protagonisti leader mondiali (Trump, Johnson, Bolsonaro) i quali, dopo avere minimizzato l'entità della diffusione del Covid, ne sono stati personalmente vittime. A battersi per le "riaperture" e la ripartenza economica anche quando morivano mille persone al giorno in Italia sono stati soprattutto Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Battaglia che adesso si è spostata contro l'obbligo vaccinale e, addirittura, contro restrizioni mirate esclusivamente a chi non disponga del Green Pass.

Ma perché sono soprattutto i politici di destra quelli che non accettano le misure precauzionali e difendono coloro che negano l'evidenza? È una domanda alla quale, francamente, non riesco a trovare una risposta. È un tema dove le contrapposizioni ideologiche non dovrebbero avere grande importanza. L'unica risposta possibile è che probabilmente sanno che il loro elettorato mal digerisce l'imposizione di regole che se da un lato sono volte a contenere la diffusione del virus, dall'altro rallentano il processo di ripresa di un tessuto economico che dalla pandemia sta uscendo con le ossa rotte. 

Se così fosse sarebbe piuttosto strano che chi ha formato la propria sostanza politica sulla base di modelli storici e politici in qualche caso autoritari, proprio su questo argomento invochi libertà di coscienza o il rispetto di un'opinione "democraticamente espressa". E, aggiungo, se così fosse, quella organizzata e tuttora sul tappeto sarebbe una politica assolutamente miserabile. 

Il punto vero è che la Medicina e la ricerca scientifica in genere non hanno niente a che vedere con la Democrazia. Se è complicato (sicuramente lo è dal punto di vista giuridico) pensare di potere imporre per legge la vaccinazione anche a chi non la vuole somministrata, fatico a comprendere l'opposizione di fronte alla possibilità di rendere obbligatoria la fruizione di servizi e di ingressi al ristorante o a teatro soltanto a chi è in possesso del Green Pass. 

Nella vita si compiono scelte, si assumono decisioni. Non è giusto che chi ha deciso di vaccinarsi non abbia il diritto di potere avere una conduzione di vita migliore di chi invece ha scelto di non farlo (per i suoi motivi). E allora se devo andare al ristorante, sulla base del parere degli scienziati, devo condividere gli spazi con chi si è vaccinato. Altrimenti non abbiamo concluso niente. Così come è inaccettabile che l'immunità di gregge debba essere garantita esclusivamente da chi si è vaccinato, mentre chi non si è vaccinato debba quasi approfittarne. In definitiva, la diaspora tra "pro" e "contro" i vaccini ci fornisce la cifra della pochezza culturale nella quale è precipitata la società odierna. 

sabato 17 luglio 2021

Curatori fallimentari battono cassa. Ma è normale che un tribunale non si preoccupi del diritto all'acqua dei cittadini?

Ma è normale che un tribunale (nella fattispecie quello fallimentare di Palermo) gestisca il fallimento di una società senza tenere anche conto del tipo di servizio che la predetta società eroga (tipo la fornitura dell'acqua ai cittadini)? Da settimane mi sforzo di dare una risposta a questa domanda, rivolgendola a mia volta agli addetti ai lavori. I quali mi rispondono facendo spallucce, significandomi che il mio dubbio è legittimo ma che, evidentemente, la strada che percorre un procedimento come quello fallimentare non è tenuta ad osservare altri scenari se non quello di riconoscere il diritto dei creditori ad ottenere il massimo possibile dall'impresa fallita. 

Quando la società fallita è quella che gestisce il servizio idrico integrato (nelle more di una transizione che se non ci fossero stati sindaci così capricciosi sarebbe sicuramente in una fase più avanzata) i dubbi aumentano. Infatti: può la giustizia dei cavilli e dell'applicazione pedissequa degli articoli del codice disinteressarsi delle conseguenze del proprio agire nei confronti della comunità? Può, un giudice delegato, occuparsi del percorso formale di un procedimento senza preoccuparsi delle conseguenze che quel percorso produce nei confronti della comunità? 

Non mi sarei attardato più di tanto in questa riflessione se uno ben più esperto di me (l'avvocato Giuseppe Massimo Dell'Aira) non fosse arrivato alla decisione di dimettersi dalla carica delicatissima di commissario prefettizio della Girgenti Acque già dopo la nomina di un incaricato dal tribunale delle imprese che (di fatto) sovrintendesse sulla gestione (economica, sic!) della società di Marco Campione. Contestò, Dell'Aira, proprio "il commissariamento dei commissari prefettizi". E tolse il disturbo.

Oggi che quello che rimane della Girgenti Acque deve pagare i debiti (tra i creditori più importanti c'è lo stesso Campione, ma questa è un'altra storia), i curatori fallimentari battono cassa. E sembra poco importargli se i soldi che il povero commissario prefettizio superstite Gervasio Venuti deve versare loro derivino dalle bollette idriche pagate dagli utenti o dagli stipendi dei lavoratori (uno dei motivi per i quali rischiano il licenziamento). Lo spauracchio conseguente di questo scenario drammatico, a fronte di tale realtà, è che materialmente improvvisamente non ci sia più nessuno che possa fare funzionare gli impianti idrici, che dunque possa aprire i rubinetti. Una preoccupazione non certo solo mia (che faccio il giornalista) ma anche di chi ha la responsabilità di garantire quello che possiamo definire "il servizio dei servizi": quello dell'acqua. Venuti è preoccupato, la presidente dell'Ati Valenti è preoccupatissima.

In punta di piedi faccio osservare che la fase di transizione tra la gestione (fallimentare, e non solo tecnicamente) da Girgenti Acque alla nuova società consortile (che si è costituita di recente) non credo che si possa completare in quattro e quattr'otto. Le cose, dunque, sono assai più complicate di quanto certe campagne politiche (ho sempre pensato che il mestiere più bello del mondo sia quello del politico di opposizione) tendano a dimostrare. 

E allora non può non essere chiaro che ci troviamo di fronte ad un vulnus nei confronti della comunità. Perché il tribunale fallimentare deve fare il suo mestiere, ma la gente ha pure il diritto di avere l'acqua, su questo non ci piove (mai metafora fu più azzeccata). Come è possibile che anche un giudice non si faccia queste mie stesse domande? È davvero così inevitabile che non ci si ponga questo dubbio? Alla luce della situazione oggettiva la risposta a queste domande è negativa. E, francamente, non mi può pace. Perché il fallimento riguarda una società, mentre nel modo in cui si sta agendo, le conseguenze vengono affibbiate ai cittadini che di quella società sono, in estrema sintesi, niente più che "ostaggi". 

martedì 13 luglio 2021

Perché è solo la Nazionale quella che ci fa ritrovare il senso della comunità?

So bene che il mondo potrebbe benissimo fare a meno del mio commento sulla recente vittoria della Nazionale degli Europei di calcio. Per cui prometto che sarò breve.
Considero socialmente significativo il senso della comunità che la conquista della coppa (e ancora prima la superiorità espressa in campo dai nostri giocatori sin dalla prima partita con la Turchia) ha generato in un Paese oggi profondamente lacerato, con una distanza tra le classi sociali (se questa classificazione ha ancora un senso) che, ahimè, il covid ha pesantemente accentuato. Un Paese nel quale quella che fino a un anno fa poteva considerarsi la nostra "middle class" oggi si sforza faticosamente di galleggiare tra le acque agitate di quelle che gli esperti definiscono "nuove povertà". Differenze su cui, piuttosto che lavorare sulle soluzioni, i nostri politici orchestrano ogni giorno nuovi e sempre più violenti scontri, perfettamente e consapevolmente inutili, "buoni" solo a galvanizzare le proprie corti. 
Nell'era dei social non c'è stato leader che non abbia celebrato sulle proprie pagine la grande conquista sportiva, evidentemente timoroso che una eventuale dimenticanza avvantaggiasse il proprio concorrente
più attento ad una cosa così importante, o palesasse addirittura una lontananza inaccettabile da un tema così sentito. 
Il senso della comunità è quello su cui da tempo cerco di battere, nei limiti del mio agire, s'intende. Il nostro essere italiani, il nostro orgoglio di "appartenere" a questa Nazione, dovrebbe essere un concetto fondante, nel rispetto di una Costituzione che (noto) nei piani alti ci si affretta ogni giorno che passa a modificare. Dovrebbe essere, ma non è. E non è "benaltrismo" riflettere su quello che significhi oggi il senso di appartenenza. I tempi sono cambiati, è ovvio, ma al tifo per l'Italia calcistica dovrebbe associarsi quello per l'Italia dei diritti civili, del lavoro (è l'epoca in cui più di 400 operai toscani vengono licenziati via email), della crescita economica e della tutela delle fasce più deboli. Vale per gli italiani, vale anche per i siciliani, per gli agrigentini, per i saccensi. 
Il periodo che stiamo attraversando è drammaticamente disancorato dai problemi veri di un Paese che, per dire, nel suo ceto politico, registra leader che mettono in discussione perfino l'appartenenza stessa all'Europa, all'inseguimento di teorie xenofobe e omofobe, forse buone per vincere le elezioni. Il che, nella loro testa, è tutto quello che importa. 
Un Paese che si appassiona alle sorti sportive di una Nazionale (malgrado la faticosissima adesione culturale e assai più che simbolica alla campagna Blacks lives matter) ci restituisce l'immagine di una nazione orgogliosa della sua storia e della sua identità. Ma non basta. Bisognerebbe trasformare l'orgoglio derivante dall'affermazione sportiva in uno spunto per affermare un senso di comunità diuturno, dove l'essere "di destra" o "di sinistra" diventi un fatto di importanza quasi secondaria di fronte alle sorti (inevitabilmente unificate) di tutto il Paese. Chiedo troppo, lo so, perché una cosa così apparentemente semplice si può concretizzare solo tra i popoli che non siano sempre perennemente schiavi di una campagna elettorale infinita. 

lunedì 22 marzo 2021

L'oblio, da dimensione dell'angoscia a esercizio di un diritto non sempre legittimo



L'oblio è quella dimensione che più di ogni altra suggella un'idea quasi filosofica di angoscia, sintetizzabile nella celebre metafora dei "titoli di coda" che, come in un film dal finale più o meno malinconico, scorrono ineluttabilmente sullo schermo della nostra vita, componendo uno struggente "The End". A meno che l'oblio non sopraggiunga con il nostro trapasso, è a quel punto che ci rendiamo conto di come sia la memoria il patrimonio più importante che ciascuno di noi può continuare a custodire. Anzi: spesso l'oblio è perfino una necessità di sopravvivenza. D'altra parte Balzac diceva che "i ricordi rendono la vita più bella, dimenticare la rende più sopportabile". È anche vero però che nell'oblio trova terreno fertile inevitabilmente la trasformazione talvolta drammatica della considerazione dell'essere di ciascuno: stranieri in terra straniera, sconosciuti tra gli sconosciuti. 

Nel giornalismo l'oblio non ha nulla di metafisico. Anzi, è un argomento di grande importanza, al punto tale che è anche un diritto riconosciuto all'interno della legislazione vigente oltre che dal punto di vista delle norme del nostro codice deontologico. Siamo chiamati, noi giornalisti, a rispettare la dignità di qualcuno che è stato al centro della cronaca nel passato, non annoverandolo più nell'attualità, non tirandolo più in ballo, soprattutto se questo processo scaturisce da narrazioni forzate, che vanno a tirare in ballo in maniera perfettamente inutile esperienze passate. Il giornalista è chiamato ad evitare di parlare di persone e fatti accaduti in passato, e se lo fa l'interessato può invocare il diritto all'oblio.

È evidente che stiamo parlando però di un diritto borderline, perché rievocare un fatto del passato da parte del giornalista non sempre è un'operazione inutile, soprattutto se si parla (per dire) di un soggetto che torna a commettere un reato che aveva già commesso vent'anni prima. Che si fa in questi casi? Non si può ricordare che l'autore del reato è un recidivo. In un caso del genere non solo non si può invocare un diritto all'oblio, ma è anzi necessario rievocare il fatto accaduto anni prima.

La comunicazione giornalistica è chiamata ad osservare regole che, tuttavia, talvolta sono obiettivamente difficili da fare rispettare. Tipo il diritto all'oblio. Però le norme sono norme, e bisogna sforzarsi di rispettarle. Ma è una regola complicatissima. Non sempre è superfluo fare riferimento a fatti del passato. Rimane dunque pacifico che una regola è una regola, ma poi la sua applicazione va inevitabilmente esaminata caso per caso. 

sabato 13 marzo 2021

L'onestà intellettuale, questa sconosciuta


Sempre più spesso, nei dibattiti e nelle contrapposizioni, le parti in causa invocano un ricorso più o meno vicendevole a quella che tutti abbiamo imparato a conoscere come "onestà intellettuale". Trovo che sia una delle definizioni concettualmente più interessanti che l'italiano abbia permesso di introdurre all'interno del linguaggio corrente, e che possiamo attagliare perfettamente ad ogni tipo di analisi, e non solo in quelle di connotazione strettamente politica. È di tutta evidenza, per esempio, che è l'onestà intellettuale quella che consente ad un tifoso della Juventus di non potere negare che Romelo Lukaku (che gioca nell'Inter, squadra acerrima nemica dei bianconeri) sia un grande calciatore. Chi non lo ammette è semplicemente accecato dal tifo e, di conseguenza, non sa cosa sia l'onestà intellettuale. 

Di esempi se ne possono fare a bizzeffe, e il mio ricorso ad un'analogia stretta col tifo sportivo non è casuale, giacché l'impostazione diffusa, anche nell'arena politica, rifugge sempre di più dal ragionamento (anche da quello contrapposto) per scadere puntualmente nel sostegno (fine a se stesso) al proprio partito e nel disprezzo (fine a se stesso anzichenò, sic!) del partito avversario. Il confronto tra idee è stato ormai sostituito dalle grida da Curva sud, i protagonisti della vita pubblica non si rispettano, tendendo più a sminuire il pensiero dell'avversario piuttosto che ad argomentare il proprio. 

Il noto virologo Andrea Crisanti, nel corso della trasmissione "La Confessione" condotta da Peter Gomez, si è rivolto al presidente della Regione Veneto Luca Zaia dicendogli: "Io non la penso come te (chiaramente il riferimento è alle idee politiche, n.d.a.), ma insieme abbiamo lavorato bene. Poi i nostri rapporti si sono interrotti, e questo perché hai preferito circondarti di collaboratori che non ti facessero mai notare che stavi sbagliando". Crisanti per un po' aveva svolto il ruolo di consulente tecnico del governatore. Per poi avere il benservito. Il contenuto del suo messaggio a Zaia denota una indubitabile onestà intellettuale. Per una personalità forte, ci vuole una personalità forte e mezza.

E così le analisi politiche più autentiche sono quelle che non risentono di alcun condizionamento diretto o indiretto dalla situazione oggetto dell'approfondimento contingente. E qui entra in gioco anche il ruolo del giornalista. Ammetto di sentirmi (sempre più spesso) "tirato per la giacca" da chi ritiene che, all'interno di una contesa, dovrei "prendere le parti" di un protagonista o di una fazione, nell'altrui certezza che io non possa che condividere quella impostazione. 

Succede spesso che la manifestazione di un'opinione, perfino quando questa è completamente scevra da interessi diretti o indiretti, susciti negli interlocutori dubbi e perplessità. Per la serie: "Come mai la pensi così? Forse perché sei di sinistra (o di destra)"? E questo sarebbe il minimo. Molto più frequenti sono ben altre le congetture: "La pensi così perché hai ottenuto un favore o perché ritieni di doverlo chiedere e, dunque, agisci solo per accattivarti delle simpatie". Se un avversario politico o un concorrente nel lavoro dice o fa una cosa che è la stessa che avremmo fatto noi, perché non riconoscerlo? Per non dargli soddisfazione? Chi lo fa viene quasi considerato con disprezzo, o considerato un consociativo, quando non ritenuto un colluso.

Insomma la tendenza diffusa è volta ad escludere, all'interno del dibattito, che la natura realmente di un commento o di un giudizio possa essere niente più che disinteressata. In una parola: non si crede nell'onestà intellettuale. Io invece ci credo. Ed è uno dei motivi per i quali il mio amato papà non ebbe mai la soddisfazione di vedermi scendere di persona all'interno della contesa politica. Perché credo che le idee libere siano quelle che permettano di manifestare un minimo di stima nei confronti di colui che la mattina ci guarda dallo specchio.  


giovedì 14 gennaio 2021

Della "zia dell'America" e dei palloncini a forma di coniglio di quel Ferragosto del 1975

Non deve essere difficile intuirlo, ma quello con quell'improbabile camicia gialla e, soprattutto, con la faccia da "morto di sonno" sono io. 

La prima volta che "la zia dell'America" tornò a Sciacca correva l'anno 1975. Se n'era andata a Brooklyn che c'era ancora la guerra. Trascorsero 30 anni (e 3 figli) prima che tornasse a toccare il suolo sciacchitano. Tornava a riabbracciare sua madre, mia nonna. Rispetto ad oggi le transoceaniche aeree erano piuttosto rare. E, soprattutto, costose. Era già estate, sono sicuro che fosse fine giugno, di pomeriggio. La 127 rossa "Giannini" invocò disperata e sbuffante la prima marcia quando zio Agostino che la guidava curvò sulla ripida di via Mori. 

Già, via Mori. Che, francamente, non ho mai capito a quali "Mori" fosse stata intitolata. Dubito che si trattasse dei "quattro mori" della bandiera sarda, gli stessi che in qualche maniera, orgogliosi, avevano dettato legge dal petto di Gigi Riva; dubito anche che fosse un omaggio al paesino di Mori, nella lontana provincia trentina. Poteva essere stato un omaggio ai gelsi, frutti della "Morus"? No, le denominazioni botaniche delle strade sarebbero arrivate più avanti. Ho da sempre il sospetto che quella via fosse solo uno dei retaggi superstiti del Ventennio. C'erano ancora podestà e camicie nere quando Cesare Mori, il celebre "prefetto di ferro", era passato a miglior vita. Assai più probabile però che l'onore di una via fosse stato riservato ai berberi (o forse ai saraceni?), tra i tanti dominatori della millenaria storia siciliana. 

Ma sto divagando. La 127 "Giannini" di zio Agostino, dicevo. Era stanca, povera macchina. Andare e tornare da Punta Raisi non era mica uno scherzo. Oltretutto i passeggeri caricati a Punta Raisi non erano proprio dei pesi piuma. C'era la zia Peppina, e con lei c'erano anche 2 dei 3 cugini a noi tutti sconosciuti: Fanny e Louis. Già, Louis, variante inglese del (bellissimo) nome del nonno materno. Che però si chiamava Luigi. Almeno Louis era una traduzione più rispettosa della storia delle storpiature nostrane. Sì, perché compreso mio fratello, dalla stessa ramificazione di Luigi ne ho conosciuti ben 9. Altri 2 e avremmo potuto fare una squadra di calcio. Tutti Luigi, ma con varianti diverse (ma mica tanto): da Gino a Ginetto. Insomma: manco un Luigi. O meglio: tutti Luigi. Ma solo all'anagrafe. Si fosse trattato delle monete del re di Francia non avremmo potuto comprarci niente. Nella mia famiglia tutte le strade portavano al medesimo fonte battesimale. Ma nessuno di loro è cresciuto rispondendo al corretto nome di battesimo. D'altronde mio nonno stesso, poverino, veniva chiamato "Mastro Luviggi". Con la V. 

C'era già l'ombra sul balcone della casa dove sono nato. Il calore del marmo del pavimento era tollerabile. Dubito che se non lo fosse stato avrei capito che non era il caso di stare fuori. Ho detto che sono certo che fosse la fine di giugno perché anche su quella strada regnavano gli archi illuminati, gli stessi che ogni anno addobbavano la zona del porto in occasione della festa del patrono dei pescatori. Uno di questi archi corrispondeva esattamente col balcone di casa mia. Avevo il technicolor davanti ai miei occhi, un privilegio assoluto. "Fazzi chi tocchi? Pigghi la corrente e mori". Precetto chiarissimo, fin troppo, quasi come uno dei racconti dell'orrore che Maria, la mia dirimpettaia, amava raccontarmi per spaventarmi a morte. Ma non avrei mai potuto toccarlo l'arco di luci, non ci sarei potuto arrivare. Però ne avevo lo stesso timore. Come se l'elettricità si spostasse dai cavi migrando sulle mie manine. Mi  bastava guardarlo pensando che di lì a poco (forse un'ora, forse due) quelle lucette si sarebbero accese, facendomi perfino sentire importante, una specie di privilegiato, di custode di quell'arco di San Pietro.

I coloratissimi ospiti scesero dalla 127 "Giannini". L'auto era più esausta di loro, addirittura dalla griglia del radiatore era visibile una nuvoletta di fumo e io stesso, dal mio "piano alto", percepivo un acre olezzo di bruciato. La macchina sembrò perfino sospirare quando, alzato il freno a mano, zio Agostino finalmente la spense. Non ricordo se poi sarebbe regolarmente ripartita. Ne dubito. Gli occupanti appena scesi erano tutti accaldati. Non certo la zia, ma i cugini erano stupiti. Erano nati negli States, non erano abituati a quell'accoglienza, a quell'invadenza, a quel calore così esuberante, tra baci, abbracci, ascelle sudate e odori di gioia più o meno esagitata. Stupito, osservavo la scena da dietro le sbarre della mia prigione a cielo aperto, da quel balcone che era il mio primo luogo di giochi, quello dove giocavo cantando indegnamente "a cappella" le canzoni della hit parade: da Wess e Dori Ghezzi a Drupi. Costui, quanto meno, mi avvicinava al blues. A me cinquenne piaceva quella cosa di "cantare". Meno male che, a tal proposito, non ho mai avuto alcuna velleità.

Ma torniamo all'approdo degli zii in terra siciliana. Scesi giù anche io e, curioso, mi unii alla ressa gioiosa di quella singolare cerimonia d'accoglienza, anche se piccolo com'ero faticavo a trovare lo spazio necessario per partecipare di persona. Fu la zia Peppina ad accorgersi di me. Era la prima volta che ci incontravamo. Quella bella signora burrosa con gli occhiali più grandi della faccia aprì la sua borsa gigantesca, dove infilò il suo braccione in profondità. Mi aspettavo che, come Mary Poppins (o anche Eta Beta) tirasse fuori come minimo un attaccapanni. Invece prese un pacchetto di Spearmint, le gomme da masticare americane, quelle che avevano il bordo della carta argentata a coprirle col taglio dentato. La zia dell'America mi aveva già conquistato. Non sapeva, naturalmente, che "cu l'acciunchi li renti ti fannu mali". 

Una sera, a Ferragosto, sedemmo tutti al caffè Scandaglia, per mangiare il gelato. Louis, adolescente, era uscito con i cugini. Fanny invece rimase con me, a farmi compagnia, insieme alla zia e ai miei genitori. C'erano anche gli zii di Porto Empedocle, che lo strano fotografo di quella sera ha impietosamente trasformato in margini dello scatto. 

Esuberante "all'americana", già diciottenne, mia cugina Fanny pretese il palloncino a elio, quello che aveva la forma di un coniglio, quelli che per non farli volare via si legavano al braccio. Il problema non fu che lo pretese per sé. No, ottenne che anche al mio polso volasse lo stesso palloncino. Con le orecchie lunghe. Mi vergognai come un ladro, ma poi mi attrasse l'idea che quella notte il mio coniglietto restasse attaccato al soffitto della mia cameretta. Ma l'indomani mattina l'elio si era già stancato, e mi svegliai ritrovandomi quel coniglietto spossato davanti ai miei occhi.

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...