domenica 24 maggio 2020

Quando tono ed espressività possono stravolgere il senso stesso di una tesi


Uno dei difetti dei social è sicuramente l'impossibilità di fare ricorso al "tono" (o anche solo alla semplice espressione dello sguardo) quando si afferma un'opinione o, di fatto, si sta ricorrendo solo al tentativo di fare una battuta. Che, naturalmente, come le ciambelle, non sempre riescono "col buco". 

In una delle sue divertentissime parodie, l'attore Max Tortora (che personalmente adoro), chiarisce il senso di quello che voglio dire quando ci spiega la possibile ambivalenza (in senso del tutto allegorico e satirico) che può assumere una dichiarazione se, al contempo, questa viene accompagnata da uno sguardo di un certo tipo, da una mimica facciale specifica. E così, in modo assolutamente esilarante, Tortora propone uno dei passi più celebri di "Io che amo solo te" (capolavoro di Sergio Endrigo del 1962) in due modi diversi. Io ho avuto solo te, recita la frase del testo da lui prescelta. Il senso reale della lirica, naturalmente, è quello che tutti abbiamo da sempre correttamente percepito: l'espressione di un sentimento profondo, la riconoscenza che l'autore manifesta al destino per avergli fatto incontrare l'amore della sua vita. Ebbene: Max Tortora ci dimostra come sia possibile, con un semplice sguardo, attribuire alla stessa frase il significato opposto. E così, con uno sbuffo, intona lo stesso passo significandoci che, al contrario di quanto la poetica indichi, Io ho avuto solo te si trasforma così nel simbolo di una autentica disdetta, una specie di maledizione. Il risultato è a dir poco divertente. Sui social non è possibile associare il tono giusto ad una dichiarazione. 

Eppure certi post sono inequivocabilmente provocatori, satirici, allegorici. Succede anche il contrario, ovverosia che una frase seria venga scambiata per un calembour. Non è certamente questo il problema più grave di Facebook. Cogliere, o provare a farlo, il senso reale del contenuto di un post, non è semplicemente un esercizio di stile. Tuttavia, se non si capisce il significato (che non è sempre criptico) di un commento, significa che si ha un grosso problema di comprendonio. Sì, so bene che farlo notare è perfettamente inutile. Perché è chiaro che chi ha un grosso problema di comprendonio non capirà nemmeno il contenuto di questo mio tentativo. 

mercoledì 20 maggio 2020

I calci del clown bianco nel sedere del compagno nero: il razzismo secondo il film "Mister Chocolat"

Mi sono imbattuto qualche sera fa nella visione di "Mister Chocolat", un intensissimo film francese del 2016, per la regia di Roschdy Zem che racconta la storia (vera) di Rafael Padilla, un africano che nella Francia della fine del XIX secolo fu reclutato dall'esperto clown George Foottit, formando così con lui un duo comico senza precedenti, che si rivelò innovativo per gli spettacoli circensi dell'epoca, dando forma all'immagine inedita del primo pagliaccio di colore. La costante delle loro esibizioni era data dalla rappresentazione di un ossessivo maltrattamento da parte del bianco che, a ripetizione, umilia (a calci nel sedere) il collega nero. Il tutto tra le risate compiaciute del pubblico, sia di quello plebeo, sia di quello borghese. È, questa, la stessa metafora del film in questione, sulla cui trama non aggiungo altro (nel caso in cui foste curiosi di vederlo). 
Considero tuttavia lo spunto del film particolarmente interessante, soprattutto perché permette di guardare dall'ennesima prospettiva alla storia stessa dell'uomo, alla direzione verso la quale questa storia si è incanalata nel corso dei secoli, nell'eterno conflitto tra oppressi e oppressori, nell'odiosa afflizione alla quale sono stati relegati milioni di esseri umani, "colpevoli" solo della loro natura, ora del colore della pelle, ora della religione professata, non trascurando (ahimé) l'orientamento sessuale. 
"Mister Chocolat", interpretato magistralmente da Omar Sy, incarna così tutte le secolari (e note) controversie antropologiche che si sono generate attorno all'uomo, dalle violenze gratuite ai pregiudizi culturali, dall'avversione per il diverso al sospetto dato perfino dagli stessi tratti somatici, come arrivò a teorizzare Cesare Lombroso. Il tutto viene condensato nella pellicola in uno spaccato assai rappresentativo delle degenerazioni di cui il genere umano ha dimostrato nella storia di essere capace, come anche durante il "Secolo breve", fatto di nefandezze quali leggi razziali e pulizie etniche.
La direzione dell'umanità, dunque dicevamo. "Mister Chocolat" è un uomo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Per un nero, però, pregi e difetti erano (e per qualcuno sono ancora) elementi del tutto secondari. Sullo sfondo permane così l'apoteosi del pregiudizio, quello di cui parte del nuovo razzismo in fondo sembra quasi vergognarsi, come rivela la corsa, piuttosto pelosa, di quello che Umberto Eco definì il "fascismo eterno", a premettere, in ogni ragionamento improntato oggettivamente e definitivamente sull'intolleranza, di "non essere razzista", dovendo aggiungere nel proprio ragionamento una delle congiunzioni avversative di cui la grammatica italiana è ricca (da "però" a "tuttavia", anche se la forma più ricorrente rimane ancora oggi l'attualissimo "ma").
È complicato ancora oggi in troppe parti del mondo guardare ad una concezione oggettiva della qualità delle persone, senza indugiare in elementi considerati distintivi ma che, eppure, distintivi non sono. "Mister Chocolat" non è uno stinco di santo, e chi vedrà il film se ne accorgerà: è un uomo fragile, che affoga nei vizi i retaggi delle sue insicurezze del passato. Il punto dirimente è che quelle da lui rappresentate sono solo le debolezze dell'essere umano, dove non ha alcuna importanza il colore della pelle ma la bellezza del suo pensiero e della sua voglia di riscattare l'oppresso, che non ha bisogno di diventare oppressore a sua volta per realizzare il senso di giustizia, perfino senza la necessità che sia il clown nero a prendere a calci nel sedere il compagno bianco.  

venerdì 8 maggio 2020

Eppure basterebbe una dose minima di capacità di discernimento per neutralizzare le fake news

Da sempre gli intrecci della storia offrono spunti per valutazioni filosofiche, che talvolta sfociano in quelle derive che, in definitiva, altro non fanno che offrirci rappresentazioni (più o meno imparziali) della classica contrapposizione tra "bene" e "male". Un ruolo fondamentale in tale direzione viene oggi esercitato dalle cosiddette "Fake news". Che non sono certamente nate ieri, ancorché con conseguenze diverse (si pensi, per dire, all'onta di morte generata dalla stessa Inquisizione, basata su una sublimazione astratta della visione dell'immaterialità per antonomasia contro il suo esatto opposto). Nel mirino dei "cazzari", inevitabilmente, finiscono ancora oggi la razionalità umana e la capacità di discernimento, che, naturalmente, niente hanno a che fare con i dogmi religiosi, quelli offerti agli astanti da chi, a dispetto del senso stesso del passaggio di Gesù Cristo in questo mondo, considera e utilizza il Crocifisso non uno strumento di testimonianza ma una vera e propria arma utile a contundere sulla testa tutti gli infedeli.

Oggi le notizie farlocche invadono la stessa visione del mondo, mettono in discussione le nostre convinzioni, soprattutto se provengono da sedicenti esperti. Prima che condizionare, i diffusori di "Fake news" si pongono l'obiettivo di suggestionare il fruitore. E, purtroppo, sempre più spesso raggiungono l'obiettivo. Tanto più ciò accade se la "fonte della notizia" è perfino il governo della più importante democrazia del mondo, il cui presidente in carica ipotizza (ad esempio) come il coronavirus sarebbe stato generato in un laboratorio a Wuhan. 

La storia ci dice come le Fake news siano sempre riuscite ad attecchire in periodi nei quali le masse avevano bisogno (un bisogno più o meno latente) di reazione nei confronti dello status quo. L'obiettivo delle masse non è, dunque, disporre di una verità fattuale, quanto di quella intimamente più gradita, di cui si ha bisogno per avvalorare sospetti inconfessabili. Le conclusioni sono quelle a tutti note, con una fluttuazione drammaticamente mediatica di tesi il più delle volte strampalate, eppure percepite come concrete soprattutto da parte di chi ha la necessità di trovare conferma ai propri sospetti.

E così: la colpa della crisi economica è dei "migranti che ci rubano il lavoro", la (ex) presidente della Camera Boldrini ha assunto a cinquemila euro al mese prima il nipote, poi il cugino, infine la cognata, i vaccini causano l'autismo, i tumori vengono generati apposta dalle stesse case farmaceutiche che poi lucrano sui farmaci necessari per curarli. È un assedio che ogni giorno si arricchisce, in barba a smentite empiriche e a dimostrazioni scientifiche, prodotte (naturalmente) per generare illusione in quel popolo che (così qualcuno gli ha fatto credere) grazie a Internet oggi è in grado di confutare qualsiasi verità storica. Tra cui quella che la terra non è affatto tonda. 

Riuscire a difendersi da questa invasione barbarica purtroppo è piuttosto complicato, soprattutto se a servirsene sono anche forze di governo (ma anche di opposizione) pro tempore. Per noi giornalisti, peraltro, lo stesso antagonismo che subiamo quotidianamente da parte delle notizie false diffuse dalla rete (anche da sedicenti "testate") continua a rivelarsi una condizione che rende oltremodo difficile la necessaria distinzione da parte del fruitore finale tra credibilità e inattendibilità. 

Una battaglia talvolta impari, ma che non possiamo certamente sottrarci dal continuare a combattere, e in tale direzione si inquadra sicuramente il doveroso continuo ricorso alle verifiche, attraverso il meccanismo del "fact-checking", orientato ad una rigorosissima verifica delle notizie prima di pubblicarle da parte di chi fa informazione in maniera professionale. 

Tutto giusto, tutto bello. Eppure, se solo ci si pensa un momento, sarebbe sufficiente appena l'applicazione di una dose (anche minima) di capacità di discernimento per neutralizzare le bugie travestite da notizie. Quanti secoli ci vorranno per riuscire nell'intento?

lunedì 4 maggio 2020

Gli uomini di potere e la paura dell'idea che gli altri hanno di loro

L'unico di cui l'uomo di potere dovrebbe avere timore è colui che la mattina lo guarda dallo specchio. Di fatto, invece, non fa altro che inseguire il giudizio che gli altri hanno di lui. È, questo, uno dei simboli della società competitiva (o malata, fa lo stesso) nella quale viviamo, in uno scenario ormai definitivamente surreale, dove ad essere importante è non tanto l'azione che si compie, quanto la percezione che ne ricevono gli altri. La coltivazione di questa percezione da parte dell'uomo di potere si trasforma così in una vera e propria ossessione, che lo induce ad avere bisogno (e ad avvalersi) della tipica cortigianeria spicciola, quella che si profonde affannosamente in pacche sulle spalle e applausi gaudenti, come quelli dei militari che inneggiano al capo o ridono alle sue battute (il più delle volte senza averle nemmeno capite). L'uomo di potere ha così bisogno dei cortigiani come di un eccitante, che ne sostenga verbo e presenza sul proscenio. Ed ecco che, dunque, nella sublimazione del più classico degli ossimori, l'uomo di potere si manifesta per quello che è: un debole, un afflitto, unto e già pronto per friggere nell'olio (ormai bruciato) del conformismo in cui dai tempi di Giulio Cesare navigano i baciapile.  

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...