lunedì 26 luglio 2021

Di Cesare Pavese e del suo insegnamento a non fare troppi pettegolezzi

"Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". Fu questo il contenuto del biglietto che il 27 agosto 1950 Cesare Pavese fece trovare accanto al suo corpo senza vita. Aveva deciso che non poteva esserci più posto per lui nell'esistenza. Il suo irripetibile genio, neanche quello più razionale, non ebbe la meglio sulla sua infelicità. Affidò ai barbiturici il congedo drammatico dal suo mestiere di vivere. Aveva solo 42 anni. 

"Non fate troppi pettegolezzi", dunque. Nel momento più difficile della sua vita Cesare Pavese trasse lo spunto, con tragica, inarrivabile ironia, per stigmatizzare il più secolare degli esercizi di stile. Immaginando come una cosa drammaticamente normale, che di fronte al suo suicidio i suoi cari, ma anche i suoi lettori, coloro che ne avevano ammirato l'eloquio e l'impegno politico (antifascista), limitassero al minimo indispensabile le inevitabili elucubrazioni sulle ragioni del suo definitivo gesto.

Non c'è dubbio che la notizia di un suicidio susciti, piuttosto inevitabilmente, scalpore e curiosità diffusa nella pubblica opinione. Ho scelto da tempo, come giornalista, di non attribuire a quello che probabilmente è il fatto più privato che ci sia nell'esistenza di un uomo o di una donna, una valenza di interesse pubblico. Generalmente nei nostri telegiornali non ne parliamo. Onestamente non siamo i soli, anche altri colleghi e altre testate hanno fatto questa scelta. 

Certo, può accadere di doverci occupare di un fatto di questo tipo per ragioni diverse e contingenti (se, per dire, le circostanze riguardino un personaggio pubblico ovvero, ad esempio, se si tratti del fatto di cronaca di qualche settimana fa a Ribera di un omicidio-suicidio). È, la nostra, una forma di autocensura che trae spunto proprio dal contenuto del biglietto di Cesare Pavese. Perché se la curiosità pubblica è antropologica per antonomasia, adattare i celebri 5 precetti del giornalismo (Chi, Che cosa, Dove, Quando e Perché) ad un caso di suicidio è un esercizio superfluo sia nei confronti di chi ha preso la decisione di suicidarsi, sia in quelli di chi lo ha amato, che evidentemente si struggeranno fino alla fine nel tentativo di capire e, probabilmente, nel senso di colpa di non avere capito. 

Non è vero che non esiste via d'uscita al diritto di cronaca. Il diritto di cronaca deve inevitabilmente confrontarsi con la dignità della persona. A che cosa serve, dunque, sprecare inchiostro in congetture di cui nessuno, se non la vittima, sarà mai in grado di stabilire la sostanza? Se il giornalismo è chiamato a rispettare la verità, allora di fronte alla tragedia di un suicidio è chiamato a rispettare tanto di più. Scegliendo la via della discrezione. Onorando la memoria di chi non ce l'ha fatta più, condividendo (per quanto possibile) la disperazione di chi è rimasto a piangerlo. Sapendo che, ahimè, non c'è più rimedio. Tutto il resto è totalmente superfluo. 

martedì 20 luglio 2021

I leader che lisciano il pelo dei No-Vax offrono la cifra della pochezza culturale in cui è precipitato il Paese

Trovo a dir poco stupefacente la piega che ha preso il dibattito sull'emergenza sanitaria e sulla campagna vaccinale in Italia. L'assimilazione della questione a una contrapposizione "democratica" tra opinioni diverse e di cui, soprattutto i no-vax, invocano una specie di legittimazione pubblica, suggella l'esistenza di una patologia che, invero, non appartiene solo all'Italia. E dire che una certa politica negazionista ha visto protagonisti leader mondiali (Trump, Johnson, Bolsonaro) i quali, dopo avere minimizzato l'entità della diffusione del Covid, ne sono stati personalmente vittime. A battersi per le "riaperture" e la ripartenza economica anche quando morivano mille persone al giorno in Italia sono stati soprattutto Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Battaglia che adesso si è spostata contro l'obbligo vaccinale e, addirittura, contro restrizioni mirate esclusivamente a chi non disponga del Green Pass.

Ma perché sono soprattutto i politici di destra quelli che non accettano le misure precauzionali e difendono coloro che negano l'evidenza? È una domanda alla quale, francamente, non riesco a trovare una risposta. È un tema dove le contrapposizioni ideologiche non dovrebbero avere grande importanza. L'unica risposta possibile è che probabilmente sanno che il loro elettorato mal digerisce l'imposizione di regole che se da un lato sono volte a contenere la diffusione del virus, dall'altro rallentano il processo di ripresa di un tessuto economico che dalla pandemia sta uscendo con le ossa rotte. 

Se così fosse sarebbe piuttosto strano che chi ha formato la propria sostanza politica sulla base di modelli storici e politici in qualche caso autoritari, proprio su questo argomento invochi libertà di coscienza o il rispetto di un'opinione "democraticamente espressa". E, aggiungo, se così fosse, quella organizzata e tuttora sul tappeto sarebbe una politica assolutamente miserabile. 

Il punto vero è che la Medicina e la ricerca scientifica in genere non hanno niente a che vedere con la Democrazia. Se è complicato (sicuramente lo è dal punto di vista giuridico) pensare di potere imporre per legge la vaccinazione anche a chi non la vuole somministrata, fatico a comprendere l'opposizione di fronte alla possibilità di rendere obbligatoria la fruizione di servizi e di ingressi al ristorante o a teatro soltanto a chi è in possesso del Green Pass. 

Nella vita si compiono scelte, si assumono decisioni. Non è giusto che chi ha deciso di vaccinarsi non abbia il diritto di potere avere una conduzione di vita migliore di chi invece ha scelto di non farlo (per i suoi motivi). E allora se devo andare al ristorante, sulla base del parere degli scienziati, devo condividere gli spazi con chi si è vaccinato. Altrimenti non abbiamo concluso niente. Così come è inaccettabile che l'immunità di gregge debba essere garantita esclusivamente da chi si è vaccinato, mentre chi non si è vaccinato debba quasi approfittarne. In definitiva, la diaspora tra "pro" e "contro" i vaccini ci fornisce la cifra della pochezza culturale nella quale è precipitata la società odierna. 

sabato 17 luglio 2021

Curatori fallimentari battono cassa. Ma è normale che un tribunale non si preoccupi del diritto all'acqua dei cittadini?

Ma è normale che un tribunale (nella fattispecie quello fallimentare di Palermo) gestisca il fallimento di una società senza tenere anche conto del tipo di servizio che la predetta società eroga (tipo la fornitura dell'acqua ai cittadini)? Da settimane mi sforzo di dare una risposta a questa domanda, rivolgendola a mia volta agli addetti ai lavori. I quali mi rispondono facendo spallucce, significandomi che il mio dubbio è legittimo ma che, evidentemente, la strada che percorre un procedimento come quello fallimentare non è tenuta ad osservare altri scenari se non quello di riconoscere il diritto dei creditori ad ottenere il massimo possibile dall'impresa fallita. 

Quando la società fallita è quella che gestisce il servizio idrico integrato (nelle more di una transizione che se non ci fossero stati sindaci così capricciosi sarebbe sicuramente in una fase più avanzata) i dubbi aumentano. Infatti: può la giustizia dei cavilli e dell'applicazione pedissequa degli articoli del codice disinteressarsi delle conseguenze del proprio agire nei confronti della comunità? Può, un giudice delegato, occuparsi del percorso formale di un procedimento senza preoccuparsi delle conseguenze che quel percorso produce nei confronti della comunità? 

Non mi sarei attardato più di tanto in questa riflessione se uno ben più esperto di me (l'avvocato Giuseppe Massimo Dell'Aira) non fosse arrivato alla decisione di dimettersi dalla carica delicatissima di commissario prefettizio della Girgenti Acque già dopo la nomina di un incaricato dal tribunale delle imprese che (di fatto) sovrintendesse sulla gestione (economica, sic!) della società di Marco Campione. Contestò, Dell'Aira, proprio "il commissariamento dei commissari prefettizi". E tolse il disturbo.

Oggi che quello che rimane della Girgenti Acque deve pagare i debiti (tra i creditori più importanti c'è lo stesso Campione, ma questa è un'altra storia), i curatori fallimentari battono cassa. E sembra poco importargli se i soldi che il povero commissario prefettizio superstite Gervasio Venuti deve versare loro derivino dalle bollette idriche pagate dagli utenti o dagli stipendi dei lavoratori (uno dei motivi per i quali rischiano il licenziamento). Lo spauracchio conseguente di questo scenario drammatico, a fronte di tale realtà, è che materialmente improvvisamente non ci sia più nessuno che possa fare funzionare gli impianti idrici, che dunque possa aprire i rubinetti. Una preoccupazione non certo solo mia (che faccio il giornalista) ma anche di chi ha la responsabilità di garantire quello che possiamo definire "il servizio dei servizi": quello dell'acqua. Venuti è preoccupato, la presidente dell'Ati Valenti è preoccupatissima.

In punta di piedi faccio osservare che la fase di transizione tra la gestione (fallimentare, e non solo tecnicamente) da Girgenti Acque alla nuova società consortile (che si è costituita di recente) non credo che si possa completare in quattro e quattr'otto. Le cose, dunque, sono assai più complicate di quanto certe campagne politiche (ho sempre pensato che il mestiere più bello del mondo sia quello del politico di opposizione) tendano a dimostrare. 

E allora non può non essere chiaro che ci troviamo di fronte ad un vulnus nei confronti della comunità. Perché il tribunale fallimentare deve fare il suo mestiere, ma la gente ha pure il diritto di avere l'acqua, su questo non ci piove (mai metafora fu più azzeccata). Come è possibile che anche un giudice non si faccia queste mie stesse domande? È davvero così inevitabile che non ci si ponga questo dubbio? Alla luce della situazione oggettiva la risposta a queste domande è negativa. E, francamente, non mi può pace. Perché il fallimento riguarda una società, mentre nel modo in cui si sta agendo, le conseguenze vengono affibbiate ai cittadini che di quella società sono, in estrema sintesi, niente più che "ostaggi". 

martedì 13 luglio 2021

Perché è solo la Nazionale quella che ci fa ritrovare il senso della comunità?

So bene che il mondo potrebbe benissimo fare a meno del mio commento sulla recente vittoria della Nazionale degli Europei di calcio. Per cui prometto che sarò breve.
Considero socialmente significativo il senso della comunità che la conquista della coppa (e ancora prima la superiorità espressa in campo dai nostri giocatori sin dalla prima partita con la Turchia) ha generato in un Paese oggi profondamente lacerato, con una distanza tra le classi sociali (se questa classificazione ha ancora un senso) che, ahimè, il covid ha pesantemente accentuato. Un Paese nel quale quella che fino a un anno fa poteva considerarsi la nostra "middle class" oggi si sforza faticosamente di galleggiare tra le acque agitate di quelle che gli esperti definiscono "nuove povertà". Differenze su cui, piuttosto che lavorare sulle soluzioni, i nostri politici orchestrano ogni giorno nuovi e sempre più violenti scontri, perfettamente e consapevolmente inutili, "buoni" solo a galvanizzare le proprie corti. 
Nell'era dei social non c'è stato leader che non abbia celebrato sulle proprie pagine la grande conquista sportiva, evidentemente timoroso che una eventuale dimenticanza avvantaggiasse il proprio concorrente
più attento ad una cosa così importante, o palesasse addirittura una lontananza inaccettabile da un tema così sentito. 
Il senso della comunità è quello su cui da tempo cerco di battere, nei limiti del mio agire, s'intende. Il nostro essere italiani, il nostro orgoglio di "appartenere" a questa Nazione, dovrebbe essere un concetto fondante, nel rispetto di una Costituzione che (noto) nei piani alti ci si affretta ogni giorno che passa a modificare. Dovrebbe essere, ma non è. E non è "benaltrismo" riflettere su quello che significhi oggi il senso di appartenenza. I tempi sono cambiati, è ovvio, ma al tifo per l'Italia calcistica dovrebbe associarsi quello per l'Italia dei diritti civili, del lavoro (è l'epoca in cui più di 400 operai toscani vengono licenziati via email), della crescita economica e della tutela delle fasce più deboli. Vale per gli italiani, vale anche per i siciliani, per gli agrigentini, per i saccensi. 
Il periodo che stiamo attraversando è drammaticamente disancorato dai problemi veri di un Paese che, per dire, nel suo ceto politico, registra leader che mettono in discussione perfino l'appartenenza stessa all'Europa, all'inseguimento di teorie xenofobe e omofobe, forse buone per vincere le elezioni. Il che, nella loro testa, è tutto quello che importa. 
Un Paese che si appassiona alle sorti sportive di una Nazionale (malgrado la faticosissima adesione culturale e assai più che simbolica alla campagna Blacks lives matter) ci restituisce l'immagine di una nazione orgogliosa della sua storia e della sua identità. Ma non basta. Bisognerebbe trasformare l'orgoglio derivante dall'affermazione sportiva in uno spunto per affermare un senso di comunità diuturno, dove l'essere "di destra" o "di sinistra" diventi un fatto di importanza quasi secondaria di fronte alle sorti (inevitabilmente unificate) di tutto il Paese. Chiedo troppo, lo so, perché una cosa così apparentemente semplice si può concretizzare solo tra i popoli che non siano sempre perennemente schiavi di una campagna elettorale infinita. 

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...