sabato 17 luglio 2021

Curatori fallimentari battono cassa. Ma è normale che un tribunale non si preoccupi del diritto all'acqua dei cittadini?

Ma è normale che un tribunale (nella fattispecie quello fallimentare di Palermo) gestisca il fallimento di una società senza tenere anche conto del tipo di servizio che la predetta società eroga (tipo la fornitura dell'acqua ai cittadini)? Da settimane mi sforzo di dare una risposta a questa domanda, rivolgendola a mia volta agli addetti ai lavori. I quali mi rispondono facendo spallucce, significandomi che il mio dubbio è legittimo ma che, evidentemente, la strada che percorre un procedimento come quello fallimentare non è tenuta ad osservare altri scenari se non quello di riconoscere il diritto dei creditori ad ottenere il massimo possibile dall'impresa fallita. 

Quando la società fallita è quella che gestisce il servizio idrico integrato (nelle more di una transizione che se non ci fossero stati sindaci così capricciosi sarebbe sicuramente in una fase più avanzata) i dubbi aumentano. Infatti: può la giustizia dei cavilli e dell'applicazione pedissequa degli articoli del codice disinteressarsi delle conseguenze del proprio agire nei confronti della comunità? Può, un giudice delegato, occuparsi del percorso formale di un procedimento senza preoccuparsi delle conseguenze che quel percorso produce nei confronti della comunità? 

Non mi sarei attardato più di tanto in questa riflessione se uno ben più esperto di me (l'avvocato Giuseppe Massimo Dell'Aira) non fosse arrivato alla decisione di dimettersi dalla carica delicatissima di commissario prefettizio della Girgenti Acque già dopo la nomina di un incaricato dal tribunale delle imprese che (di fatto) sovrintendesse sulla gestione (economica, sic!) della società di Marco Campione. Contestò, Dell'Aira, proprio "il commissariamento dei commissari prefettizi". E tolse il disturbo.

Oggi che quello che rimane della Girgenti Acque deve pagare i debiti (tra i creditori più importanti c'è lo stesso Campione, ma questa è un'altra storia), i curatori fallimentari battono cassa. E sembra poco importargli se i soldi che il povero commissario prefettizio superstite Gervasio Venuti deve versare loro derivino dalle bollette idriche pagate dagli utenti o dagli stipendi dei lavoratori (uno dei motivi per i quali rischiano il licenziamento). Lo spauracchio conseguente di questo scenario drammatico, a fronte di tale realtà, è che materialmente improvvisamente non ci sia più nessuno che possa fare funzionare gli impianti idrici, che dunque possa aprire i rubinetti. Una preoccupazione non certo solo mia (che faccio il giornalista) ma anche di chi ha la responsabilità di garantire quello che possiamo definire "il servizio dei servizi": quello dell'acqua. Venuti è preoccupato, la presidente dell'Ati Valenti è preoccupatissima.

In punta di piedi faccio osservare che la fase di transizione tra la gestione (fallimentare, e non solo tecnicamente) da Girgenti Acque alla nuova società consortile (che si è costituita di recente) non credo che si possa completare in quattro e quattr'otto. Le cose, dunque, sono assai più complicate di quanto certe campagne politiche (ho sempre pensato che il mestiere più bello del mondo sia quello del politico di opposizione) tendano a dimostrare. 

E allora non può non essere chiaro che ci troviamo di fronte ad un vulnus nei confronti della comunità. Perché il tribunale fallimentare deve fare il suo mestiere, ma la gente ha pure il diritto di avere l'acqua, su questo non ci piove (mai metafora fu più azzeccata). Come è possibile che anche un giudice non si faccia queste mie stesse domande? È davvero così inevitabile che non ci si ponga questo dubbio? Alla luce della situazione oggettiva la risposta a queste domande è negativa. E, francamente, non mi può pace. Perché il fallimento riguarda una società, mentre nel modo in cui si sta agendo, le conseguenze vengono affibbiate ai cittadini che di quella società sono, in estrema sintesi, niente più che "ostaggi". 

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