giovedì 14 ottobre 2021

L'astensionismo anche nei comuni accumula altra polvere sulle tesi sul bene comune di Platone e Montesquieu


Le ultime elezioni amministrative hanno confermato un fenomeno che, purtroppo, continua ad essere colpevolmente sottovalutato: l'astensionismo. La quantità di persone che periodicamente preferiscono rinunciare ad esercitare il proprio diritto è in preoccupante aumento. Se da un lato c'è chi sostiene che questo sia (più o meno paradossalmente) un fatto che in qualche maniera conferma la percezione popolare di un'architettura democratica che non corre alcun pericolo, dall'altro ciò che accade non può non suscitare più di un interrogativo sulla sostanziale disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni e sulle ragioni che la determinano. 

Disaffezione che appare orientata chiaramente verso un senso di sfiducia e stanchezza nel riporre una qualche speranza in un modello di cambiamento del sistema a partire, essenzialmente, dalla sua capacità di tornare a dare qualche risposta. Speranze che vengono puntualmente disilluse. 

In una visione la più possibile obiettiva della questione, è urgente riflettere sul fatto che se fino a pochi anni fa l'astensionismo era il segno di un malessere oggettivo che, tuttavia, risparmiava ancora gli enti locali, avamposti residui della compiutezza del rapporto tra il cittadino e il suo amministratore, sublimandosi soprattutto nel rinnovo delle assemblee elettive regionali, nazionali ed europee, oggi purtroppo la tendenza a starsene a casa sembra riguardare sempre di più anche la dimensione strettamente civica. 

Non si può negare che questo accada anche perché negli ultimi 20 anni i comuni hanno dovuto gestire perennemente le emergenze, costretti ad arrabattarsi con sempre minori risorse economiche a propria disposizione. Una situazione originata da una "devolution" alla quale il Paese non era preparato, sconoscendone metodiche e soprattutto effetti. A questo si aggiunga che ormai i comuni sono letteralmente svuotati di impiegati, e il tentativo di correre ai ripari è quello, per essere chiari, di cercare di svuotare una vasca da bagno con uno scolapasta. 

In questo quadro, e in considerazione del fatto che a votare adesso anche per le elezioni comunali ci va poco più del 50% degli aventi diritto, quella che viene fuori è l'immagine di una classe politica sempre più autoreferenziale, dove a spadroneggiare sono i cosiddetti "gigli magici", con l'immancabile arena fatta di contrapposizioni politiche (soprattutto personalistiche) che, ad eccezione delle rispettive cortigianerie di chi governa e di chi sta all'opposizione, interessano assai poco il resto della collettività. Che, dal canto suo, appare a dir poco sfiduciata, rassegnata, frustrata e repressa, con i suoi cittadini che guardano ai fatti della vita pubblica della propria comunità più o meno svogliatamente, incapaci di comprendere fino in fondo quella che talvolta appare come una stravagante e inconcludente polemica il più delle volte fine a se stessa, dove "meriti e abilità" da una parte, e "colpe e responsabilità" dall'altra, inducono a pensare che alla fine quelle che vengono fuori sono soltanto chiacchiere (e senza neanche il distintivo).

D'altronde se la filosofia politica da sempre incentra le sue tesi di studio sulla possibilità che chi amministra possa compiere delle scelte come sublimazione del bene comune, è purtroppo anche vero che tutto questo oggi non è più possibile. Le scuole di Platone e Montesquieu sono da decenni riposte nel cassetto a prendere polvere. Oggi se un comune non è più in grado di rispondere alle esigenze primarie di un territorio (le strade, l'acqua, la spazzatura e i servizi) le ragioni sono diverse, e purtroppo solo in parte attribuibili alla capacità o all'incapacità del singolo amministratore, visto che (per dirne una) i livelli sovracomunali di governo, ancor più autoreferenziali, per rispondere all'invocato taglio dei costi della politica intervengono riducendo il numero di consiglieri comunali eletti nella singola municipalità. Pur sapendo che un consigliere comunale eletto percepisce meno di 20 euro a seduta, mentre l'indennità di carica degli amministratori, al netto della assurda demagogia  attorno a questo argomento, è a dir poco ridicola. 

E così, le risposte fornite non solo sono assolutamente lontane dal raggiungimento dell'obiettivo (nella fattispecie, ripeto, quello di abbassare i costi della politica), ma rendono i comuni stessi ancor più ingovernabili, riducendo vertiginosamente la forbice che separa i numeri della maggioranza e quelli dell'opposizione, in una condizione nella quale è sufficiente lo spostamento di appena un paio di posizionamenti in consiglio che improvvisamente il sindaco in carica si ritrova già senza più una maggioranza che gli permetta di andare avanti. 

La domanda che a conclusione di questo ragionamento viene da porsi è: ma che senso ha mettersi in gioco per cercare di amministrare una città? Se la ragione è la vanagloria personale ci può anche stare. Ma serve a poco, perché la disillusione è dietro l'angolo, anche per se stessi. Perché oltre alle contumelie degli avversari, pochi giorni dopo la vittoria elettorale inizieranno anche i malumori dei propri sostenitori. E alla fine la vanagloria sarà stata soltanto come il maggiordomo dei film gialli: il colpevole del fallimento. 

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