giovedì 14 gennaio 2021

Della "zia dell'America" e dei palloncini a forma di coniglio di quel Ferragosto del 1975

Non deve essere difficile intuirlo, ma quello con quell'improbabile camicia gialla e, soprattutto, con la faccia da "morto di sonno" sono io. 

La prima volta che "la zia dell'America" tornò a Sciacca correva l'anno 1975. Se n'era andata a Brooklyn che c'era ancora la guerra. Trascorsero 30 anni (e 3 figli) prima che tornasse a toccare il suolo sciacchitano. Tornava a riabbracciare sua madre, mia nonna. Rispetto ad oggi le transoceaniche aeree erano piuttosto rare. E, soprattutto, costose. Era già estate, sono sicuro che fosse fine giugno, di pomeriggio. La 127 rossa "Giannini" invocò disperata e sbuffante la prima marcia quando zio Agostino che la guidava curvò sulla ripida di via Mori. 

Già, via Mori. Che, francamente, non ho mai capito a quali "Mori" fosse stata intitolata. Dubito che si trattasse dei "quattro mori" della bandiera sarda, gli stessi che in qualche maniera, orgogliosi, avevano dettato legge dal petto di Gigi Riva; dubito anche che fosse un omaggio al paesino di Mori, nella lontana provincia trentina. Poteva essere stato un omaggio ai gelsi, frutti della "Morus"? No, le denominazioni botaniche delle strade sarebbero arrivate più avanti. Ho da sempre il sospetto che quella via fosse solo uno dei retaggi superstiti del Ventennio. C'erano ancora podestà e camicie nere quando Cesare Mori, il celebre "prefetto di ferro", era passato a miglior vita. Assai più probabile però che l'onore di una via fosse stato riservato ai berberi (o forse ai saraceni?), tra i tanti dominatori della millenaria storia siciliana. 

Ma sto divagando. La 127 "Giannini" di zio Agostino, dicevo. Era stanca, povera macchina. Andare e tornare da Punta Raisi non era mica uno scherzo. Oltretutto i passeggeri caricati a Punta Raisi non erano proprio dei pesi piuma. C'era la zia Peppina, e con lei c'erano anche 2 dei 3 cugini a noi tutti sconosciuti: Fanny e Louis. Già, Louis, variante inglese del (bellissimo) nome del nonno materno. Che però si chiamava Luigi. Almeno Louis era una traduzione più rispettosa della storia delle storpiature nostrane. Sì, perché compreso mio fratello, dalla stessa ramificazione di Luigi ne ho conosciuti ben 9. Altri 2 e avremmo potuto fare una squadra di calcio. Tutti Luigi, ma con varianti diverse (ma mica tanto): da Gino a Ginetto. Insomma: manco un Luigi. O meglio: tutti Luigi. Ma solo all'anagrafe. Si fosse trattato delle monete del re di Francia non avremmo potuto comprarci niente. Nella mia famiglia tutte le strade portavano al medesimo fonte battesimale. Ma nessuno di loro è cresciuto rispondendo al corretto nome di battesimo. D'altronde mio nonno stesso, poverino, veniva chiamato "Mastro Luviggi". Con la V. 

C'era già l'ombra sul balcone della casa dove sono nato. Il calore del marmo del pavimento era tollerabile. Dubito che se non lo fosse stato avrei capito che non era il caso di stare fuori. Ho detto che sono certo che fosse la fine di giugno perché anche su quella strada regnavano gli archi illuminati, gli stessi che ogni anno addobbavano la zona del porto in occasione della festa del patrono dei pescatori. Uno di questi archi corrispondeva esattamente col balcone di casa mia. Avevo il technicolor davanti ai miei occhi, un privilegio assoluto. "Fazzi chi tocchi? Pigghi la corrente e mori". Precetto chiarissimo, fin troppo, quasi come uno dei racconti dell'orrore che Maria, la mia dirimpettaia, amava raccontarmi per spaventarmi a morte. Ma non avrei mai potuto toccarlo l'arco di luci, non ci sarei potuto arrivare. Però ne avevo lo stesso timore. Come se l'elettricità si spostasse dai cavi migrando sulle mie manine. Mi  bastava guardarlo pensando che di lì a poco (forse un'ora, forse due) quelle lucette si sarebbero accese, facendomi perfino sentire importante, una specie di privilegiato, di custode di quell'arco di San Pietro.

I coloratissimi ospiti scesero dalla 127 "Giannini". L'auto era più esausta di loro, addirittura dalla griglia del radiatore era visibile una nuvoletta di fumo e io stesso, dal mio "piano alto", percepivo un acre olezzo di bruciato. La macchina sembrò perfino sospirare quando, alzato il freno a mano, zio Agostino finalmente la spense. Non ricordo se poi sarebbe regolarmente ripartita. Ne dubito. Gli occupanti appena scesi erano tutti accaldati. Non certo la zia, ma i cugini erano stupiti. Erano nati negli States, non erano abituati a quell'accoglienza, a quell'invadenza, a quel calore così esuberante, tra baci, abbracci, ascelle sudate e odori di gioia più o meno esagitata. Stupito, osservavo la scena da dietro le sbarre della mia prigione a cielo aperto, da quel balcone che era il mio primo luogo di giochi, quello dove giocavo cantando indegnamente "a cappella" le canzoni della hit parade: da Wess e Dori Ghezzi a Drupi. Costui, quanto meno, mi avvicinava al blues. A me cinquenne piaceva quella cosa di "cantare". Meno male che, a tal proposito, non ho mai avuto alcuna velleità.

Ma torniamo all'approdo degli zii in terra siciliana. Scesi giù anche io e, curioso, mi unii alla ressa gioiosa di quella singolare cerimonia d'accoglienza, anche se piccolo com'ero faticavo a trovare lo spazio necessario per partecipare di persona. Fu la zia Peppina ad accorgersi di me. Era la prima volta che ci incontravamo. Quella bella signora burrosa con gli occhiali più grandi della faccia aprì la sua borsa gigantesca, dove infilò il suo braccione in profondità. Mi aspettavo che, come Mary Poppins (o anche Eta Beta) tirasse fuori come minimo un attaccapanni. Invece prese un pacchetto di Spearmint, le gomme da masticare americane, quelle che avevano il bordo della carta argentata a coprirle col taglio dentato. La zia dell'America mi aveva già conquistato. Non sapeva, naturalmente, che "cu l'acciunchi li renti ti fannu mali". 

Una sera, a Ferragosto, sedemmo tutti al caffè Scandaglia, per mangiare il gelato. Louis, adolescente, era uscito con i cugini. Fanny invece rimase con me, a farmi compagnia, insieme alla zia e ai miei genitori. C'erano anche gli zii di Porto Empedocle, che lo strano fotografo di quella sera ha impietosamente trasformato in margini dello scatto. 

Esuberante "all'americana", già diciottenne, mia cugina Fanny pretese il palloncino a elio, quello che aveva la forma di un coniglio, quelli che per non farli volare via si legavano al braccio. Il problema non fu che lo pretese per sé. No, ottenne che anche al mio polso volasse lo stesso palloncino. Con le orecchie lunghe. Mi vergognai come un ladro, ma poi mi attrasse l'idea che quella notte il mio coniglietto restasse attaccato al soffitto della mia cameretta. Ma l'indomani mattina l'elio si era già stancato, e mi svegliai ritrovandomi quel coniglietto spossato davanti ai miei occhi.

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