mercoledì 18 novembre 2020

Scuola. Ritardi nei pagamenti dei docenti a "contratto Covid". La protesta di un giovane insegnante saccense

Se tutti i docenti con contratti covid o supplenze brevi si comportassero come si comporta lo Stato, seguendo logicamente il trattamento che stanno ricevendo, dovrebbero arrivare in ritardo ogni giorno, o meglio, prendere servizio e iniziare a lavorare due o tre mesi dopo. 

I ritardi sui pagamenti dei “contratti Covid”, come anche quelli per le supplenze brevi, sono due esempi di come costantemente i diritti dei lavoratori vengano calpestati. 

Questo gioco perverso sfinisce, toglie energie, ma soprattutto, mortifica lentamente, giorno dopo giorno la dignità dei lavoratori.

Il primo inganno è il meccanismo dello “scaricabarile”, che consiste in un continuo rimpallo di responsabilità che, in modo contraddittorio, assolve tutti: la segreteria dice che i fondi non ci sono, la Ragioneria di Stato che aspetta indicazioni dal Miur, il Miur che aspetta indicazioni dal Ministro e così via. 

La perversione si muove su due inganni che portano ad uno stallo esasperante; un labirinto senza via d’uscita. 

Insomma, si delinea un panorama in stile “Fiera dell’est”, come cantava Branduardi: una fiera dell’assurdo; il secondo inganno, a mio avviso il più pericoloso, è quello di parole vuote che si instillano come veleno nella mente di ognuno: “pazienza” , “gavetta”,  tanto per fare due esempi. 

Se riflettiamo attentamente, ci rendiamo conto di come queste due parole non solo non abbiano nulla a che fare con i ritardi sui pagamenti, ma come rappresentino dei veri e propri meccanismi di difesa, o peggio di negazione, i quali si radicano nel nostro cervello per costringerci ad accettare una realtà disarmante.

Accettare passivamente significa piegarsi ad una fallacia che rischia di trasformarci in schiavi legati ad un catena, che continuano a vedere le ombre proiettate su un muro: le ombre della “pazienza” della “gavetta”, e del“ è sempre stato così”.

Lorenzo Marciante

domenica 15 novembre 2020

L'uomo di oggi e la sua necessità di riversare i propri problemi sugli altri, innocenti compresi

Indifferenza ed egoismo sono probabilmente (e da molto tempo) i simboli di una società moderna che, con l'avvento del Covid, sembrano essersi drammaticamente rafforzati. Non a caso non passa giorno che Papa Francesco non provi ad attirare l'attenzione sui temi centrali di un Umanesimo che, ormai, appare sempre più inafferrabile, dove la civiltà dell'immagine è sempre più padrona del mondo, in un ambito nel quale l'apparire, più che sull'essere, predomina sul senso stesso della vita. 

Il diritto alla Felicità (principio dai contenuti addirittura "giuridici" se si pensa che è uno tra quelli espressamente contemplati all'interno della stessa Costituzione degli Stati Uniti), si è trasformato così nella più folle delle corse, al centro di un'interpretazione diffusa in massima parte improntata esclusivamente sul soddisfacimento di un interesse privato, oltrepassando impietosamente così ogni concezione di "diritto", suggellando la necessità di ottenere ciò che "ci spetta", e questo anche a costo di calpestare i bisogni altrui. 

L'uomo oggi non è mai pago di ciò che possiede, ha bisogno di aumentare a dismisura il senso del possesso, e se non può farlo è pronto a tirare fuori gli istinti più bestiali, riversando la propria rabbia contro gli altri, soprattutto se deboli o "diversi". Un sentire che, tuttavia, non appartiene soltanto alla società opulenta, ma anche a quella che vive di stenti, insoddisfatta di una condizione, la propria, nella quale hanno un'incidenza variabili diverse tra loro: mancanza di lavoro e problemi economici, ma anche crisi familiari, malattie, mancanza di rapporti sociali e così via. 

Tutto questo alimenta rabbia, reprime la necessità di sfogare i propri istinti e, di conseguenza, induce a prendersela con i più fragili, con quelli che sono addirittura più deboli di noi. E questo malgrado non siano loro i "colpevoli" dei nostri problemi. Così, nel tritacarne di questa rabbia sono finiti i migranti, dei quali in pochi si domandano perché stiano scappando dal loro paese ma dei quali, se proprio non si riesce a dare per scontato il passato, si "garantisce" sul loro futuro di criminali o di "ladri di lavoro". È in questa crisi di valori che una certa politica si è buttata a capofitto, cavalcando la crisi morale  ed esistenziale dell'uomo, assecondando dunque gli istinti più beceri con il solo obiettivo di guadagnare voti alle prossime elezioni. 

Tra i più deboli oggi ci sono soprattutto gli anziani. I nostri predecessori ai quali, grazie (anche, ma non solo) ad una certa impostazione "negazionista" del Covid, è stato perfino assegnato il compito di sacrificarsi "per noi", di andarsene all'altro mondo perché, tanto, non "fanno più parte del tessuto produttivo", soprattutto se avevano "malattie pregresse" rispetto al Coronavirus. 

Quello che viene fuori, come mi ha insegnato un mio maestro, è che "chi ha problemi tende a crearne agli altri". Non è forse vero che chi ha un problema personale sente la necessità di riversarlo su chi può stare peggio di lui? Non amo generalizzare, e non penso che tutta la società di oggi abbia questa impostazione mentale. Certo, non nascondo di credere che ad averla sia quanto meno la percentuale di chi vota per un certo partito. In fondo, però, sono solo preoccupato. Forse perché "egoisticamente" comincio a rendermi conto di avere un'età che, a breve, potrà venire considerata "non più produttiva". Che tristezza. 

martedì 25 agosto 2020

Il nostro giornalismo forse scontenta le tifoserie: ma tanto a noi i tifosi non piacciono

 "Lei è liberissimo di dare tutte le risposte che vuole, io faccio tutte le domande che credo". Furono queste le parole che Enzo Biagi comunicò per telefono a Michele Sindona nel 1977, poco prima dell'intervista al discusso banchiere e faccendiere.

Premetto subito che non intendo avvicinarmi (ma neanche lontanamente) alla grandezza di Enzo Biagi, ma questo ricorso storico mi è necessario per cercare di mettere in risalto il ruolo che (naturalmente dal mio punto di vista) il giornalista è chiamato a svolgere, in un'epoca nella quale le tifoserie in campo lo tirano continuamente per la giacca, pretendendo che agisca "in nome e per conto" o, peggio, nella qualità di "braccio armato" di una lotta politica della quale siamo e vogliamo continuare ad essere spettatori. 

Forse il mio difetto è che ho una faccia che qualcuno considera poco aggressiva (non è una cosa che mi interessa, francamente), o che mentre faccio le interviste non brandisca un manganello per colpire sulla faccia l'ospite di turno, così come vorrebbero alcuni telespettatori-tifosi assetati di sangue. La mia "fortuna" è, però, che ogni giorno (e da almeno trent'anni), il mio lavoro scontenta contemporaneamente i tifosi (più o meno politicizzati) di una squadra così come, allo stesso modo, quelli della squadra avversaria. 

Un Telegiornale cittadino non fa politica. Secondo noi deve essere testimone dei fatti. Noi di Tele Monte Kronio non temiamo di prendere posizione sui temi più spinosi, ma al tempo stesso non temiamo di fare i conti con la verità, perché è il nostro unico punto di riferimento, a differenza di chi è "tifoso", che  con la verità ha un rapporto assolutamente partigiano, ritenendo che la "sua verità" sia l'unica possibile e immaginabile.

La funzione primaria del nostro Telegiornale (e sfido chiunque a dimostrare il contrario) è quello di garantire ogni giorno il dibattito. Per riuscire nell'intento concediamo lo spazio necessario a tutte le rappresentanze politiche, sociali e culturali più o meno democraticamente accreditate. 

Per qualcuno, evidentemente, questo non è un fatto positivo. Ebbene: per noi lo è. Ed è su questa strada che continueremo a lavorare, nel tentativo di tenere alto lo spirito di un confronto che sia democratico, in un solco nel quale continueremo ad interpretare le istanze dei cittadini (ogni giorno protagonisti con la rubrica delle "Vostre segnalazioni), ma nel quale non esiteremo a fornire anche chiavi di lettura condivisibili o meno, ma sicuramente oneste, che forse non saranno accompagnate da standing ovation popolari. Ma a noi le standing ovation non interessano. Non facciamo show o, peggio, non offriamo gare di boxe. Noi facciamo una cosa un po' più seria: facciamo informazione. Con tutti i limiti che questo genera.

Parliamo con tutti, accogliamo le istanze di tutti e valorizziamo un dibattito tentando di improntarlo sulla serietà professionale e sul rispetto di tutte le opinioni. Ma non siamo "parte in causa", e tanto meno ci interessa arruffianarci nei confronti dell'una o dell'altra "parte". 

mercoledì 3 giugno 2020

Dal Coronavirus alla spazzatura: quando lisciare il pelo della rabbia non è sempre saggio

Occupandomi per lavoro della vicenda Coronavirus, ho sentito più volte il bisogno di ribadire come nessuno di noi fosse preparato a questa situazione, come non ci fossero precedenti nella storia recente e, di conseguenza, come non ci fossero possibili paragoni con situazioni similari del passato e da nessun osservatorio: né quello scientifico, né quello economico, né quello politico. Una elucubrazione necessaria, la mia, nella fase storica in cui "tutti sanno tutto", e il proprio "pensiero" trova spazio nel fertilissimo cortile di Facebook nel quale, piuttosto facilmente, se non si è autentici haters, spesso si rischia di rasentare ugualmente l'insolenza, pretendendo come minimo di saperla comunque più lunga di luminari e premi Nobel.

La mia premessa è obbligatoria per cercare di interpretare il più possibile il rigore che il giornalista dovrebbe osservare nel raccontare un fatto, conferendo alla eventuale legittima parallela critica, una dimensione che sia la più possibile rispettosa non solo del problema, ma anche del detentore (pro tempore) del potere di risolverlo nonché dell'effettiva valenza delle competenze di chi quel problema è stato chiamato a gestire. Si è rivelata a dir poco presuntuosa, per dire, la gestione giornalistica dell'emergenza Coronavirus che ha visto colleghi lasciarsi andare addirittura a valutazioni cliniche. Molti giornalisti preferiscono lisciare il pelo al lettore più incattivito, con l'obiettivo evidente di acquisire l'immagine del cronista d'assalto, di colui che non le manda a dire, che grida, che "smaschera" soprusi. Alcuni, mica tutti (parlo dei soprusi). 

Il tentativo è chiaro: imbattersi nell'insoddisfazione generale, quella di chi ritiene che solo il lavacro del sangue (naturalmente quello altrui) possa purificare il mondo (anche nell'accezione più laica possibile). L'arte del puntare il dito cancella così l'arte del ragionamento, del confronto, della possibilità (anche critica) di capire e soprattutto di farsi capire. E così tutto diventa politica, tutto si scioglie nell'acciaio fuso delle chiavi d'interpretazione contro il potere (ma, fatalmente, a favore dell'opposizione). E viceversa. E ad imperare alla fine è il relativismo. 

Prendiamo ad esempio la questione dei rifiuti. L'aumento della raccolta differenziata, da fatto positivo che era si è trasformato in un problema. Il centro di compostaggio dove conferire i rifiuti umidi, infatti, non ce la fa a ricevere tutto il quantitativo di spazzatura raccolta in diciassette comuni, quelli dell'ex Ato (oggi Srr).

Da un po' di tempo saltano regolarmente i turni di ritiro dell'organico. Con conseguenti (ripetitivi) improperi dell'opinione pubblica sui social, a cui si associa la solita politica che gioca a rimpiattino. Come se non sapessimo che noi siamo solo il microcosmo di un universo ben più vasto, dove la gestione della spazzatura sconta decenni di ritardi regionali (e italiani), come se non sapessimo che il centro di compostaggio di Sciacca è solo uno degli ingranaggi di una macchina gigantesca, come se non sapessimo che non si può tirare all'infinito la coperta troppo corta di una questione, quella dei rifiuti, che senza inceneritori mica possono essere sempre mandati in Germania (dove, si presume, a differenza di noi che siamo intelligenti loro sono stupidi). 

Ma fa comodo far finta di non sapere niente di tutto questo. Fa comodo alla politica di opposizione (che liscia il pelo della rabbia della gente), fa comodo alla politica di maggioranza (che ricorda come il problema abbia dimensioni regionali). Il tutto in una discussione infinita, dove le parti sono state (e torneranno ad essere) invertite. E dove alla fine il giornalista che liscia il pelo dell'opinione pubblica effettivamente non ama dire come stanno davvero i fatti, ma ha solo bisogno di dare la colpa a qualcuno. Non è così che dovrebbe funzionare. 

domenica 24 maggio 2020

Quando tono ed espressività possono stravolgere il senso stesso di una tesi


Uno dei difetti dei social è sicuramente l'impossibilità di fare ricorso al "tono" (o anche solo alla semplice espressione dello sguardo) quando si afferma un'opinione o, di fatto, si sta ricorrendo solo al tentativo di fare una battuta. Che, naturalmente, come le ciambelle, non sempre riescono "col buco". 

In una delle sue divertentissime parodie, l'attore Max Tortora (che personalmente adoro), chiarisce il senso di quello che voglio dire quando ci spiega la possibile ambivalenza (in senso del tutto allegorico e satirico) che può assumere una dichiarazione se, al contempo, questa viene accompagnata da uno sguardo di un certo tipo, da una mimica facciale specifica. E così, in modo assolutamente esilarante, Tortora propone uno dei passi più celebri di "Io che amo solo te" (capolavoro di Sergio Endrigo del 1962) in due modi diversi. Io ho avuto solo te, recita la frase del testo da lui prescelta. Il senso reale della lirica, naturalmente, è quello che tutti abbiamo da sempre correttamente percepito: l'espressione di un sentimento profondo, la riconoscenza che l'autore manifesta al destino per avergli fatto incontrare l'amore della sua vita. Ebbene: Max Tortora ci dimostra come sia possibile, con un semplice sguardo, attribuire alla stessa frase il significato opposto. E così, con uno sbuffo, intona lo stesso passo significandoci che, al contrario di quanto la poetica indichi, Io ho avuto solo te si trasforma così nel simbolo di una autentica disdetta, una specie di maledizione. Il risultato è a dir poco divertente. Sui social non è possibile associare il tono giusto ad una dichiarazione. 

Eppure certi post sono inequivocabilmente provocatori, satirici, allegorici. Succede anche il contrario, ovverosia che una frase seria venga scambiata per un calembour. Non è certamente questo il problema più grave di Facebook. Cogliere, o provare a farlo, il senso reale del contenuto di un post, non è semplicemente un esercizio di stile. Tuttavia, se non si capisce il significato (che non è sempre criptico) di un commento, significa che si ha un grosso problema di comprendonio. Sì, so bene che farlo notare è perfettamente inutile. Perché è chiaro che chi ha un grosso problema di comprendonio non capirà nemmeno il contenuto di questo mio tentativo. 

mercoledì 20 maggio 2020

I calci del clown bianco nel sedere del compagno nero: il razzismo secondo il film "Mister Chocolat"

Mi sono imbattuto qualche sera fa nella visione di "Mister Chocolat", un intensissimo film francese del 2016, per la regia di Roschdy Zem che racconta la storia (vera) di Rafael Padilla, un africano che nella Francia della fine del XIX secolo fu reclutato dall'esperto clown George Foottit, formando così con lui un duo comico senza precedenti, che si rivelò innovativo per gli spettacoli circensi dell'epoca, dando forma all'immagine inedita del primo pagliaccio di colore. La costante delle loro esibizioni era data dalla rappresentazione di un ossessivo maltrattamento da parte del bianco che, a ripetizione, umilia (a calci nel sedere) il collega nero. Il tutto tra le risate compiaciute del pubblico, sia di quello plebeo, sia di quello borghese. È, questa, la stessa metafora del film in questione, sulla cui trama non aggiungo altro (nel caso in cui foste curiosi di vederlo). 
Considero tuttavia lo spunto del film particolarmente interessante, soprattutto perché permette di guardare dall'ennesima prospettiva alla storia stessa dell'uomo, alla direzione verso la quale questa storia si è incanalata nel corso dei secoli, nell'eterno conflitto tra oppressi e oppressori, nell'odiosa afflizione alla quale sono stati relegati milioni di esseri umani, "colpevoli" solo della loro natura, ora del colore della pelle, ora della religione professata, non trascurando (ahimé) l'orientamento sessuale. 
"Mister Chocolat", interpretato magistralmente da Omar Sy, incarna così tutte le secolari (e note) controversie antropologiche che si sono generate attorno all'uomo, dalle violenze gratuite ai pregiudizi culturali, dall'avversione per il diverso al sospetto dato perfino dagli stessi tratti somatici, come arrivò a teorizzare Cesare Lombroso. Il tutto viene condensato nella pellicola in uno spaccato assai rappresentativo delle degenerazioni di cui il genere umano ha dimostrato nella storia di essere capace, come anche durante il "Secolo breve", fatto di nefandezze quali leggi razziali e pulizie etniche.
La direzione dell'umanità, dunque dicevamo. "Mister Chocolat" è un uomo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Per un nero, però, pregi e difetti erano (e per qualcuno sono ancora) elementi del tutto secondari. Sullo sfondo permane così l'apoteosi del pregiudizio, quello di cui parte del nuovo razzismo in fondo sembra quasi vergognarsi, come rivela la corsa, piuttosto pelosa, di quello che Umberto Eco definì il "fascismo eterno", a premettere, in ogni ragionamento improntato oggettivamente e definitivamente sull'intolleranza, di "non essere razzista", dovendo aggiungere nel proprio ragionamento una delle congiunzioni avversative di cui la grammatica italiana è ricca (da "però" a "tuttavia", anche se la forma più ricorrente rimane ancora oggi l'attualissimo "ma").
È complicato ancora oggi in troppe parti del mondo guardare ad una concezione oggettiva della qualità delle persone, senza indugiare in elementi considerati distintivi ma che, eppure, distintivi non sono. "Mister Chocolat" non è uno stinco di santo, e chi vedrà il film se ne accorgerà: è un uomo fragile, che affoga nei vizi i retaggi delle sue insicurezze del passato. Il punto dirimente è che quelle da lui rappresentate sono solo le debolezze dell'essere umano, dove non ha alcuna importanza il colore della pelle ma la bellezza del suo pensiero e della sua voglia di riscattare l'oppresso, che non ha bisogno di diventare oppressore a sua volta per realizzare il senso di giustizia, perfino senza la necessità che sia il clown nero a prendere a calci nel sedere il compagno bianco.  

venerdì 8 maggio 2020

Eppure basterebbe una dose minima di capacità di discernimento per neutralizzare le fake news

Da sempre gli intrecci della storia offrono spunti per valutazioni filosofiche, che talvolta sfociano in quelle derive che, in definitiva, altro non fanno che offrirci rappresentazioni (più o meno imparziali) della classica contrapposizione tra "bene" e "male". Un ruolo fondamentale in tale direzione viene oggi esercitato dalle cosiddette "Fake news". Che non sono certamente nate ieri, ancorché con conseguenze diverse (si pensi, per dire, all'onta di morte generata dalla stessa Inquisizione, basata su una sublimazione astratta della visione dell'immaterialità per antonomasia contro il suo esatto opposto). Nel mirino dei "cazzari", inevitabilmente, finiscono ancora oggi la razionalità umana e la capacità di discernimento, che, naturalmente, niente hanno a che fare con i dogmi religiosi, quelli offerti agli astanti da chi, a dispetto del senso stesso del passaggio di Gesù Cristo in questo mondo, considera e utilizza il Crocifisso non uno strumento di testimonianza ma una vera e propria arma utile a contundere sulla testa tutti gli infedeli.

Oggi le notizie farlocche invadono la stessa visione del mondo, mettono in discussione le nostre convinzioni, soprattutto se provengono da sedicenti esperti. Prima che condizionare, i diffusori di "Fake news" si pongono l'obiettivo di suggestionare il fruitore. E, purtroppo, sempre più spesso raggiungono l'obiettivo. Tanto più ciò accade se la "fonte della notizia" è perfino il governo della più importante democrazia del mondo, il cui presidente in carica ipotizza (ad esempio) come il coronavirus sarebbe stato generato in un laboratorio a Wuhan. 

La storia ci dice come le Fake news siano sempre riuscite ad attecchire in periodi nei quali le masse avevano bisogno (un bisogno più o meno latente) di reazione nei confronti dello status quo. L'obiettivo delle masse non è, dunque, disporre di una verità fattuale, quanto di quella intimamente più gradita, di cui si ha bisogno per avvalorare sospetti inconfessabili. Le conclusioni sono quelle a tutti note, con una fluttuazione drammaticamente mediatica di tesi il più delle volte strampalate, eppure percepite come concrete soprattutto da parte di chi ha la necessità di trovare conferma ai propri sospetti.

E così: la colpa della crisi economica è dei "migranti che ci rubano il lavoro", la (ex) presidente della Camera Boldrini ha assunto a cinquemila euro al mese prima il nipote, poi il cugino, infine la cognata, i vaccini causano l'autismo, i tumori vengono generati apposta dalle stesse case farmaceutiche che poi lucrano sui farmaci necessari per curarli. È un assedio che ogni giorno si arricchisce, in barba a smentite empiriche e a dimostrazioni scientifiche, prodotte (naturalmente) per generare illusione in quel popolo che (così qualcuno gli ha fatto credere) grazie a Internet oggi è in grado di confutare qualsiasi verità storica. Tra cui quella che la terra non è affatto tonda. 

Riuscire a difendersi da questa invasione barbarica purtroppo è piuttosto complicato, soprattutto se a servirsene sono anche forze di governo (ma anche di opposizione) pro tempore. Per noi giornalisti, peraltro, lo stesso antagonismo che subiamo quotidianamente da parte delle notizie false diffuse dalla rete (anche da sedicenti "testate") continua a rivelarsi una condizione che rende oltremodo difficile la necessaria distinzione da parte del fruitore finale tra credibilità e inattendibilità. 

Una battaglia talvolta impari, ma che non possiamo certamente sottrarci dal continuare a combattere, e in tale direzione si inquadra sicuramente il doveroso continuo ricorso alle verifiche, attraverso il meccanismo del "fact-checking", orientato ad una rigorosissima verifica delle notizie prima di pubblicarle da parte di chi fa informazione in maniera professionale. 

Tutto giusto, tutto bello. Eppure, se solo ci si pensa un momento, sarebbe sufficiente appena l'applicazione di una dose (anche minima) di capacità di discernimento per neutralizzare le bugie travestite da notizie. Quanti secoli ci vorranno per riuscire nell'intento?

lunedì 4 maggio 2020

Gli uomini di potere e la paura dell'idea che gli altri hanno di loro

L'unico di cui l'uomo di potere dovrebbe avere timore è colui che la mattina lo guarda dallo specchio. Di fatto, invece, non fa altro che inseguire il giudizio che gli altri hanno di lui. È, questo, uno dei simboli della società competitiva (o malata, fa lo stesso) nella quale viviamo, in uno scenario ormai definitivamente surreale, dove ad essere importante è non tanto l'azione che si compie, quanto la percezione che ne ricevono gli altri. La coltivazione di questa percezione da parte dell'uomo di potere si trasforma così in una vera e propria ossessione, che lo induce ad avere bisogno (e ad avvalersi) della tipica cortigianeria spicciola, quella che si profonde affannosamente in pacche sulle spalle e applausi gaudenti, come quelli dei militari che inneggiano al capo o ridono alle sue battute (il più delle volte senza averle nemmeno capite). L'uomo di potere ha così bisogno dei cortigiani come di un eccitante, che ne sostenga verbo e presenza sul proscenio. Ed ecco che, dunque, nella sublimazione del più classico degli ossimori, l'uomo di potere si manifesta per quello che è: un debole, un afflitto, unto e già pronto per friggere nell'olio (ormai bruciato) del conformismo in cui dai tempi di Giulio Cesare navigano i baciapile.  

sabato 21 marzo 2020

Noi che, con il nostro lavoro smart, vi stiamo raccontando questa immane tragedia

La settimana che si conclude è stata la prima nella quale io e i miei colleghi di Tele Monte Kronio abbiamo sperimentato il lavoro da casa. Lo abbiamo fatto per tante ragioni, non foss'altro che chi invita gli altri a non uscire poi si sente quanto meno un po' in colpa nel trasgredire (ancorché per una delle ragioni permesse) proprio il precetto principale.
Ed è stato grazie alla tecnologia e alle attrezzature di cui disponiamo che abbiamo potuto impegnarci nello svolgere un lavoro "smart", che ci ha permesso di andare in onda tutti i giorni in punto, offrendovi il nostro telegiornale, privo soltanto del conduttore in studio, continuando a sforzarci di osservare tutte le regole dell'informazione, con la responsabilità di offrire quello che si chiama "servizio pubblico". 
Non è stato un lavoro facile. Al contrario, ci siamo stancati molto di più, perché non è facile riunirsi o confrontarsi con i colleghi per decidere l'impostazione da dare al Tg, e non è semplice fornire le istruzioni necessarie ai tecnici per il montaggio dei singoli servizi attraverso una chat o, peggio, per mezzo degli odiosi audiomessaggi (c'è chi pretende ancora che qualcuno si attardi ad ascoltare autentici "sceneggiati telefonici" come risultano i vocali più lunghi di 15 secondi). 
Ma noi che viviamo di pubblicità, sappiamo benissimo quanto, nel momento in cui questa tragedia mondiale sarà finita, si rivelerà difficile tornare a gestire la nostra azienda senza giorni, settimane, forse mesi senza fatturato e, conseguentemente, senza entrate economiche. Confidiamo in tal senso di venire annoverate tra le imprese meritevoli di un aiuto da parte dello Stato, quanto meno per avere concorso a garantire anche un'informazione puntuale, ovviamente al netto degli attacchi degli haters dei social, quelli a cui "stretta non gli viene, larga non gli entra" (lo so, la traduzione in italiano non è granché). 
Nel frattempo siamo ancora in prima linea, e lo saremo fin quando avremo la forza di tenere accesi i trasmettitori, di scrivere un pezzo, di pubblicare un'intervista, per aggiornarvi ogni giorno. E siamo certi che insieme ai nostri clienti, quelli che ci scelgono per far conoscere le proprie aziende, quelli che fanno già parte del nostro portafoglio e quelli potenziali che vorranno premiarci per la qualità del nostro lavoro, recupereremo il terreno bruciato da questa emergenza maledetta, che continua ogni giorno a mietere migliaia e migliaia di vittime. E noi, con il nostro lavoro smart, nel frattempo continueremo a raccontarvi questa immane tragedia.

domenica 5 gennaio 2020

Dalla politica alla vita di tutti i giorni: quanti giudici (sugli altri), quanta indulgenza (su se stessi)

Tutti dispongono della spiegazione vincente, della chiave d'interpretazione corretta, della giusta visione della realtà e (che ve lo dico a fare?) della soluzione "ritagliata" ad arte per ciascun problema che occupi la scena, dal microcosmo dei "fatti nostri" al macrocosmo dei "fatti di tutti". Ne dispongono però (ma guarda un po') puntualmente quando la responsabilità decisionale appartiene ad altri. Quando invece la predetta responsabilità appartiene a loro, tutte le ricette vincenti così sapientemente ostentate, addirittura in qualche caso brandite come manganelli, vanno improvvisamente a farsi benedire: diventano inafferrabili, evanescenti, prive di forza, inapplicabili, improduttive, in una sola parola: inutili. Chissà come mai. Forse perché parlare è più facile che agire. Succede nella politica (ovviamente). Attenzione però: succede anche nelle nostre esperienze quotidiane (nel lavoro, in famiglia, al ristorante, con gli amici e in tutti gli altri rapporti interpersonali). Ogni giorno la visione e l'analisi delle cose si basano esclusivamente su valutazioni nient'altro che soggettive. Nessuno si sforza di guardare ai fatti, figuriamoci a mettersi nei panni degli interlocutori. Condizione antropologica, ovviamente, propria dell'essere umano. Condizione nella quale si inseriscono variabili inevitabili: dalla presunzione all'invidia (l'elenco è lungo, queste due lo compendiano credo in maniera esemplare). Vale anche per le regole: sugli altri vanno applicate, su di noi vanno interpretate. Quello che è giusto a carico altrui su di noi diventa ingiusto. Me ne accorgo giornalmente anche nel mio lavoro di giornalista. Il diritto di cronaca, per dire, viene considerato un elastico, adattabile alla realtà solo nella misura in cui non ci riguardi. Nel dibattito politico la visione della realtà si trasforma spesso nella peggiore interpretazione dell'anima più barricadiera di una società perennemente alla ricerca di colpevoli per i propri problemi privati. Giudicare gli altri dunque rimane una specie di sport preferito. Ci si erge agevolmente a conoscitori di caratteri privati e dettagli di scenari che, ragionevolmente, non possono essere a conoscenza di nessuno. Ma è la natura di quell'uomo che giudica e trancia commenti con una semplicità disarmante e francamente inaccettabile. I social hanno aggravato il lato di quella "voce di popolo" fatta equivalere, in maniera blasfema, addirittura a quella di Dio. Uno dei più grandi inganni della storia. 

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...