mercoledì 20 maggio 2020

I calci del clown bianco nel sedere del compagno nero: il razzismo secondo il film "Mister Chocolat"

Mi sono imbattuto qualche sera fa nella visione di "Mister Chocolat", un intensissimo film francese del 2016, per la regia di Roschdy Zem che racconta la storia (vera) di Rafael Padilla, un africano che nella Francia della fine del XIX secolo fu reclutato dall'esperto clown George Foottit, formando così con lui un duo comico senza precedenti, che si rivelò innovativo per gli spettacoli circensi dell'epoca, dando forma all'immagine inedita del primo pagliaccio di colore. La costante delle loro esibizioni era data dalla rappresentazione di un ossessivo maltrattamento da parte del bianco che, a ripetizione, umilia (a calci nel sedere) il collega nero. Il tutto tra le risate compiaciute del pubblico, sia di quello plebeo, sia di quello borghese. È, questa, la stessa metafora del film in questione, sulla cui trama non aggiungo altro (nel caso in cui foste curiosi di vederlo). 
Considero tuttavia lo spunto del film particolarmente interessante, soprattutto perché permette di guardare dall'ennesima prospettiva alla storia stessa dell'uomo, alla direzione verso la quale questa storia si è incanalata nel corso dei secoli, nell'eterno conflitto tra oppressi e oppressori, nell'odiosa afflizione alla quale sono stati relegati milioni di esseri umani, "colpevoli" solo della loro natura, ora del colore della pelle, ora della religione professata, non trascurando (ahimé) l'orientamento sessuale. 
"Mister Chocolat", interpretato magistralmente da Omar Sy, incarna così tutte le secolari (e note) controversie antropologiche che si sono generate attorno all'uomo, dalle violenze gratuite ai pregiudizi culturali, dall'avversione per il diverso al sospetto dato perfino dagli stessi tratti somatici, come arrivò a teorizzare Cesare Lombroso. Il tutto viene condensato nella pellicola in uno spaccato assai rappresentativo delle degenerazioni di cui il genere umano ha dimostrato nella storia di essere capace, come anche durante il "Secolo breve", fatto di nefandezze quali leggi razziali e pulizie etniche.
La direzione dell'umanità, dunque dicevamo. "Mister Chocolat" è un uomo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Per un nero, però, pregi e difetti erano (e per qualcuno sono ancora) elementi del tutto secondari. Sullo sfondo permane così l'apoteosi del pregiudizio, quello di cui parte del nuovo razzismo in fondo sembra quasi vergognarsi, come rivela la corsa, piuttosto pelosa, di quello che Umberto Eco definì il "fascismo eterno", a premettere, in ogni ragionamento improntato oggettivamente e definitivamente sull'intolleranza, di "non essere razzista", dovendo aggiungere nel proprio ragionamento una delle congiunzioni avversative di cui la grammatica italiana è ricca (da "però" a "tuttavia", anche se la forma più ricorrente rimane ancora oggi l'attualissimo "ma").
È complicato ancora oggi in troppe parti del mondo guardare ad una concezione oggettiva della qualità delle persone, senza indugiare in elementi considerati distintivi ma che, eppure, distintivi non sono. "Mister Chocolat" non è uno stinco di santo, e chi vedrà il film se ne accorgerà: è un uomo fragile, che affoga nei vizi i retaggi delle sue insicurezze del passato. Il punto dirimente è che quelle da lui rappresentate sono solo le debolezze dell'essere umano, dove non ha alcuna importanza il colore della pelle ma la bellezza del suo pensiero e della sua voglia di riscattare l'oppresso, che non ha bisogno di diventare oppressore a sua volta per realizzare il senso di giustizia, perfino senza la necessità che sia il clown nero a prendere a calci nel sedere il compagno bianco.  

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