martedì 31 gennaio 2023

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza


Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, troppe dietrologie) sulla natura, e perfino sull'opportunità stessa dell'applicazione del regime del carcere duro, si sta rivelando una forzatura spaventosa. E, ancora una volta, ne è venuta fuori l'ennesima pagina del copione infinito del "teatrino della politica". Il tema, delicato e al tempo stesso controverso, è stato oggetto, in passato, di considerazioni avanzate dalla stessa Corte europea dei diritti dell'uomo, che però non hanno prodotto alcun risultato concreto, e il "carcere duro" ha resistito a diverse spallate.
Ora, capisco che nel clima che viviamo, avanzare qualche dubbio sulla natura di questa legislazione speciale rischia di trasformarsi in un dito puntato contro, nella migliore delle ipotesi di "buonismo garantista", nella peggiore di "connivente con la mafia". È indubbio che i mafiosi soffrono il 41 bis. E basterebbe questo a mantenerlo in vita. Anche se dottrina e funzione costituzionale rieducativa del carcere confliggono con questa impostazione. È anche vero che trattare come gli altri detenuti anche chi ha ucciso e sciolto nell'acido un minore suscita indignazione.
D'altra parte però il 41 bis sarebbe stato uno dei punti delle richieste dei mafiosi allo Stato nell'ambito della famigerata trattativa. Cospito non è un mafioso. Ma il 41 bis è previsto anche per chi è stato condannato per reati che rientrano nell'ambito delle azioni sovversive ed eversive contro l'ordinamento dello Stato.
Personalmente non so se l'applicazione dell'articolo 41 bis dell'ordinamento di polizia penitenziaria nei confronti di Alfredo Cospito sia o meno sovradimensionato. È anche vero tuttavia che la salvaguardia delle condizioni di salute di ogni essere umano, anche se si tratta di un detenuto, rimane un dovere di un paese che voglia dirsi civile. Sull'applicabilità del carcere duro decide la legge, il ministro della Giustizia e, eventualmente, sulla eventuale richiesta di  revoca, il tribunale di sorveglianza. Perché, dunque, si sta rivelando così difficile occuparsi del singolo caso Cospito senza bisogno di mettere in discussione l'intero principio? Perché ogni cosa in questo paese deve trasformarsi in specchietto per le allodole utile per parlare d'altro?

giovedì 19 gennaio 2023

Ma 30 anni di latitanza sono (anche) colpa di quella parte di società che continua a considerarsi controparte dello Stato

Il mondo non ha bisogno del mio commento sull'arresto di Matteo Messina Denaro. Il mio blog sì. La dietrologia che sta giganteggiando, e non solo sui social, sminuisce in modo inaccettabile il lavoro svolto dagli inquirenti e dagli investigatori. Ma siamo questo, e non credo che saranno sufficienti altri 2 secoli prima di potere essere veramente liberi. Magari tra quelli che ironizzano sulle modalità di un arresto che a loro dire sarebbe stato annunciato c'è anche chi mai e poi mai avrebbe chiamato i carabinieri per dirgli che sapeva dove si trovasse il boss. 

Indubbiamente ci sono tanti punti oscuri nella storia della lotta alla mafia, rivelatori (e in modo piuttosto inequivocabile) delle connivenze tra Stato e criminalità organizzata. E questo ben al di là della questione della trattativa, diventata oggetto di procedimenti giudiziari che hanno avuto un esito a dir poco deludente per chi li ha istruiti. Ma tutto questo non toglie nulla all'importanza della cattura di Matteo Messina Denaro. E di questo va dato atto a chi ha portato a termine questo risultato. 

Bisogna pensare male? Sì, bisogna. E allora penso male pure io: se Messina Denaro è rimasto latitante per 30 anni, e probabilmente a casa sua, non è stato solo per la protezione di quella che il procuratore De Lucia ha definito "borghesia mafiosa" o, per dirla con l'ex magistrata Teresa Principato, "delle massonerie internazionali", ma è stato anche perché è stata la stessa società che oggi inorridisce e minimizza, eleggendosi a "controparte" dello Stato, a ritenere che la sostanza della democrazia dipenda esclusivamente da quello che decidono i governanti, limitandosi ad autoassolvere la propria coscienza. 


venerdì 13 gennaio 2023

Libri. Giorgio Scerbanenco, autore noir. Italiano (a dispetto del cognome)

Ascoltando una delle più recenti puntate di "Fahrenheit", programma di approfondimento culturale di Rai Radio 3, mi sono imbattuto nella figura di Giorgio Scerbanenco. Non sfuggirà, ancorché "italianizzata", la natura inequivocabilmente slava del cognome. In realtà all'anagrafe di Kiev, il 28 luglio del 1911, il cognome corretto è Ščerbanenko. Padre ucraino, mamma italiana. Milano fu la sua città di adozione. E, stando a quanto apprendo, negli anni ha consegnato alla letteratura autentiche delizie thriller ambientate nella più europea delle città italiane, illuminandola nelle stradine e nei viali con una scrittura essenziale ma insuperabile, tra l'ironico e il drammatico. 
Personalmente in questi giorni ho potuto imbattermi in "Sei giorni di preavviso", che si trovava nella libreria di mio padre, e che sto rileggendo con gusto e passione. Si tratta della prima indagine poliziesca che ha come protagonista Arthur Jelling, archivista della polizia di Boston che si autopromuove a detective. È un romanzo del 1940. 
Visse poco Giorgio Scerbanenco. Morì infatti nel 1969. Chissà quante altre opere avrebbe potuto consegnare alla storia della letteratura italiana. A lui è intitolato un premio letterario per la letteratura poliziesca e noir. Voglio leggere
altre sue cose, perché è una fase, quella attuale, in cui mi va di conoscere autori del passato, che raccontavano storie che, in futuro, i fatti di cronaca avrebbero confermato come non ci sia niente di più inedito della realtà, e di come la realtà superi regolarmente la fantasia.

giovedì 15 dicembre 2022

Ma chi brandisce il Qatargate contro la superiorità morale in fondo vuole solo giustificare le sue marachelle

Che politica è mai quella che, per ragioni di interesse elettorale, definisce la sostanza etica stessa di un'idea per colpa di qualche infedele che prende tangenti? Io questo lo pensavo già nel 1992, quando Mani pulite scoperchiò il malaffare diffuso tra i partiti dell'epoca, avviandone in estrema sintesi, in parte giustamente, in parte no, la cancellazione dalla storia. Lo penso ancora oggi. 

È chiaro anche a me come il Qatargate sia di una gravità inaudita. Ma il giochino di considerare il Pd come simbolo di questo malaffare che viene mosso soprattutto da destra (e non solo) mi sembra azzardato. Anche se scaturisce, va ammesso, da quella supposta superiorità morale che, in effetti, faceva abbastanza puzza anche nel '92. Ma chi non ha peccato di superiorità morale scagli la prima pietra. Sono il primo ad essere deluso della dura realtà che sta venendo fuori (in attesa delle sentenze) attorno all'inchiesta sulla moglie e sulla suocera di Abubakar Soumaoro, le cui battaglie sindacali lo hanno trasformato in personaggio politico.

La sensazione che prevale in me è comunque che chi brandisce l'inchiesta di Bruxelles come uno scudiscio lo faccia un po' per giustificarsi delle sue marachelle. Perché alla fine il tentativo è sempre quello di appaiare le responsabilità e ribadire, per l'eternità, che "ladro io, ladri tutti". Ovvero: "tutti colpevoli, nessun colpevole". 

No, non funziona così. Anche se è chiaro che prima chi veniva sorpreso a rubare almeno un po' si vergognava. Oggi non si vergogna più nessuno. E se l'obiettivo di Mani pulite fu quello di cambiare la storia, questo non solo non è successo, ma è possibile dire che il quadro è nettamente peggiorato.

Aggressione di Mosca in Ucraina criminale, ma la cultura russa non si può boicottare



La protervia del potere di Vladimir Putin, e la sua aggressione criminale ad un paese sovrano come l'Ucraina, ha generato un dibattito internazionale su temi diversi: storici, diplomatici, negoziali e così via. Evito di soffermarmi oltremisura sul benaltrismo peloso di qualche sedicente intellettuale di casa nostra, per il quale la necessità del cessate il fuoco sarebbe comunque subordinata ad una resa incondizionata da parte di Zelensky. A cui, addirittura, si dà la colpa delle conseguenze (anche per noi) delle sanzioni inflitte a Mosca.
Ma nel dibattito delle sanzioni c'è finita anche l'arte russa. Da più parti, dall'inizio della guerra, sono stati sollevati dubbi sull'opportunità o meno di fruire di esibizioni sportive, esecuzioni musicali, pitture, spettacoli o interpretazioni drammaturgiche firmate da personalità russe. Questo tipo di impostazione non mi convince. Considero un radicalismo eccessivo il boicottaggio di una cultura prolifica e straordinaria. Non possiamo dare la colpa a Tolstoj, a Dostoevskij, a Rachmaninov o a Šostakovič, e alle loro opere se oggi il capo della Russia è, in estrema sintesi, un simil dittatore. C'è voluta la solita saggezza del presidente Mattarella, in occasione della prima della Scala del 'Boris Godunov' di Musorgskij, per ribadire che la cultura russa non si può cancellare. E io sono d'accordo con lui. Perché prima o poi Putin non ci sarà più. Ma l'arte di quel Paese continuerà ad essere tramandata e presente. E chi verrà dopo di noi dovrà continuare ad avere il privilegio di goderne.

domenica 27 novembre 2022

Da "Esterno notte" a "Il Dio disarmato": Moro tra ricostruzioni e legittime suggestioni artistiche

Nel suo film "Esterno notte", dedicato alla tragedia di via Fani e agli eventi privati e pubblici attorno al rapimento e all'uccisione di Aldo Moro, Marco Bellocchio propone una chiave di lettura che, alla ricostruzione storica, affianca anche alcune libere interpretazioni con evidenti e forse inevitabili finalità drammaturgiche. Questo fatto è stato oggetto di polemica, anche dalle nostre parti, da parte di personalità di primo piano di quella che fu la Democrazia cristiana di quegli anni, a cominciare dal mio amico onorevole Lillo Pumilia. A cui riconosco una straordinaria capacità di oggettivare i suoi ragionamenti, anche quando questi riguardino o esaminino persone o vicende a lui vicine.  

E, devo ammettere, onestamente non è mai stato accertato che Moro, in una confessione che sarebbe avvenuta nella "prigione del Popolo" a don Mennini, abbia detto al prete di odiare Giulio Andreotti (ancorché accusando, per questo motivo, un cristiano senso di colpa). E, d'altra parte, anche se la confessione ci fosse davvero stata, il segreto di quella confidenza non avrebbe potuto essere svelato se non violando forse il più monumentale dei precetti della religione cattolica. 

È un fatto passato alla storia, tuttavia, quello riguardante la decisione della famiglia Moro, che rifiutò i funerali di Stato. Che, per inciso, furono celebrati lo stesso ma in assenza del feretro in chiesa. Le spoglie mortali di Aldo Moro erano state benedette in cerimonia privata.

Così come è un fatto che fu scritto nero su bianco dallo statista (accusato anche per questo fatto di non essere più lucido a causa della sua prigionia) "Il mio sangue ricadrà su di loro", riferendosi espressamente ai capi del suo partito, che con la "linea della fermezza", avallata dal PCI, di fatto lo condannarono a morte. Da appassionato di cinema, ho apprezzato la ricostruzione scenografica, la regia (sul piano tecnico) e le prove di altissimo livello degli attori del cast, a partire da quella di Fabrizio Gifuni. La parte del film relativa alla ricostruzione per così dire "fantasiosa" da parte di Marco Bellocchio personalmente non la ritengo scandalosa. Sì, in alcuni frangenti forse è forzata, e non sarò certamente io a negare che possa in qualche maniera risentire di possibili condizionamenti ideologici dell'autore. Quella di Bellocchio però rimane, in ogni caso, una chiave di lettura legittima, compresa la suggestione del finale che non è stato, quello di Moro vivo (sperato da Cossiga)
, che apre gli occhi ed esce dal cofano della Renault 4 parcheggiata in via Caetani incamminandosi verso un futuro che, invece, nella realtà era già stato interrotto. Non si possono pretendere da un film rigorosissime ricostruzioni fattuali. Tanto più che ci sono fatti rimasti tuttora senza spiegazione. Per le ricostruzioni fattuali ci sono i documenti e i documentari.  

Qualche giorno fa ho presentato a Sciacca, invitato dalla mia amica Ornella Gulino della libreria Ubik, un libro sul caso Moro. Si intitola "Il Dio disarmato", di Andrea Pomella, pubblicato da Einaudi. Sul piano della collocazione dei fatti ci fermiamo solo a via Fani. Ma se ci si chieda in quale altro modo, dopo tutti quelli a cui scrittori, giornalisti e storici hanno fatto ricorso in 44 anni, sarebbe stato possibile raccontare l’agguato di via Fani, io credo che la risposta sia proprio in questo libro. Nel quale l’autore attraversa più volte, e con una scrittura potente e intensa, i 3 minuti di quello che, citando il titolo della grande inchiesta televisiva di Sergio Zavoli, è stato il momento più buio della “Notte della Repubblica”. E, d’altronde, il grande giornalista dedicò ben 3 delle 18 puntate di quel programma che, parlo da giornalista, avrebbe dovuto, così come dovrebbe ancora, fare parte della materia storica dell’istruzione pubblica. 

Una delle preoccupazioni nelle presentazioni di un libro, soprattutto se si tratta di un romanzo, è il cosiddetto rischio che venga “spoilerato” il finale. Non è questo il caso. Eppure, leggendo, ed è merito dell’autore, in qualche frangente sembra che debba succedere sempre qualcosa di diverso dalla linea temporale a tutti conosciuta. Ma, evidentemente, sul caso Moro c’è ben poco da spoilerare, lo sappiamo tutti, la successione dei fatti è entrata nella cronaca e nella mente di tutti noi. 

Volendo rappresentare le analogie storiche con le vicende internazionali, e con i drammi vissuti da altre democrazie, potremmo dire che il caso Moro è stato uno dei nostri “11 settembre”, anche se secondo me è stato il nostro “22 novembre”, la data dell’assassinio a Dallas di John Kennedy. Dico questo perché, pur guardando da sempre con il più razionale dei disincanti possibili alle cosiddette “teorie del complotto”, credo che sull’omicidio del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro troppi punti oscuri, non a caso sfuggiti a testimonianze e ammissioni di responsabilità, siano tuttora rimasti oscuri. 

Ma attenzione: non è di questo che si occupa Andrea Pomella nel suo libro (a parte un cenno alla inquietante minaccia di Kissinger a Moro sull’impegno di quest’ultimo a far "convergere le parallele" tra i due grandi partiti di massa). Certo, non può restare estranea alla narrazione dell'autore la simbologia del governo Andreotti che proprio quella mattina avrebbe dovuto presentarsi alla Camera per il primo governo, quello della “non sfiducia” da parte del Pci.

No, l’autore affianca ai fatti storici quello che considero un interessante “gioco del tempo”, cosa che solo un autore documentato, rigoroso a conoscenza dei fatti è in grado di fare, smontando e ricomponendo a più riprese la linea cronologica, spostando ora avanti, ora indietro, le lancette dei singoli eventi, offrendoci una successione apparentemente innaturale di prospettive inevitabilmente inedite, perché sono quelle degli occhi e dei sensi di chi ha vissuto personalmente quella tragedia, comprese le vittime, a partire dagli uomini della scorta di Moro, la cui parte in questa storia si trasforma in una specie di sublimazione non certo solo filosofica del protettore sprovvisto a sua volta di un protettore.

Ecco la parte del libro che lo rende unico. Voglio invitarvi a leggere, in tale direzione, quello che Andrea scrive nella sua nota dell’autore a fine romanzo. “Esistono tre verità riguardo ad uno straordinario avvenimento di sangue accaduto nel passato: una verità storica, una giudiziaria e una – più sfuggente – che ha a che fare con la percezione individuale e collettiva”. È effettivamente di quest’ultima quella di cui Andrea Pomella si occupa. Lo fa con delle ipotesi narrative suggestive ma assolutamente verosimili, con lo stile del romanziere che mette a disposizione del racconto non tanto la fantasia, quanto l’immedesimazione vera e propria. Ci racconta, Pomella, l'uomo e le sue emozioni. In un libro il meccanismo è diverso da quello di un film. Ma anche qui c'è la fantasia.

Entriamo così nel privato di Aldo Moro, raffreddato e insonne, con la testa ai suoi studenti ma anche ai figli, alle prese con un rapporto da “nonnetto” con il nipotino Luca, di cui tornerò a parlare tra poco. Entriamo nella vita di chi ancora oggi, attraversando la zona di Roma tra via Stresa, del Trionfale e, naturalmente Fani, si imbatte nella lapide commemorativa di quella tragedia. Entriamo nella vita di chi ci passò nel 1978, di chi come lo stesso Andrea c’è tornato mentre Marco Bellocchio allestiva il set del film “Esterno notte”. Entriamo nelle vite degli uomini della scorta, di quella del maresciallo Leonardi, così come nelle vite di Eleonora Moro, la rigorosissima moglie del presidente, che cerca di proteggere per come può la parte privata della vita del marito. Una specie di “loop” che Andrea propone e ripropone, permettendoci di entrare per un momento nella vita di chi passò da quelle parti, di chi prima si accorse di qualcosa di strano e di chi dopo assistette al drammatico spettacolo della tragedia.

Voglio concludere con un riferimento al piccolo Luca, il figlioletto di Fida Moro, colei che più di chiunque altri presagiva la tragedia. Ecco, io attribuisco alla figura di Luca quella del vero protagonista di questo romanzo. Intravedo, nel rapporto privilegiato tra il nonnetto e il nipote, che ci sia un lascito testamentario di tipo culturale e religioso. D’altronde, recentemente, Luca a precisa domanda su chi possa essere una sorta di nuovo Moro tra le personalità politiche dell’attuale panorama nazionale, ha detto: “io accosto mio nonno solo a Gesù”.

domenica 16 ottobre 2022

Preoccupa l'arretramento in vista sui diritti civili, ma la democrazia non è morta

Più che una coincidenza è proprio uno dei tanti paradossi della storia che, esattamente cento anni dopo la Marcia su Roma, nell'anno di grazia 2022 la destra (non il centro, non un "nei paraggi", non il "fuochino" ma proprio Lei) abbia vinto le elezioni politiche. La conseguenza (giusta) è che la signora Giorgia Meloni sarà la prima donna a presiedere il governo del Paese. Oddio, non che a lei una cosa del genere debba fare molta impressione. Il brodo di coltura (politico, se non quello strettamente familiare) nel quale anche lei si è formata è stato quello patriarcale, stigma osservato anche dalle donne di destra, comprese quelle che pure in famiglia comandavano ma che facevano finta di chiedere consiglio al marito prima di notificare una decisione già ampiamente presa. 
Giorgia Meloni ha il diritto di governare. Ne ha anche il dovere, perché è proprio per questo motivo che si è presentata alle ultime elezioni. Gli argomenti della sinistra al momento non possono che essere quelli a tutti immaginabili: i nostalgici saluti romani, la fiamma tricolore nel simbolo di Fdi, il secondo nome di battesimo di La Russa e l'oscurantismo di Fontana. 
Intendiamoci: è ovvio che faccia impressione che a capo della seconda e della terza carica dello Stato ci siano rispettivamente gli eredi di visioni politiche che dal mio punto di vista sono state non solo superate, ma sconfitte dalla storia. Ma al popolo (almeno a quella parte che è andata a votare) sta bene così. E a noi deve stare bene pure per forza. 
Questa virata a destra purtroppo è il frutto di un Paese con una offerta politica talmente parcellizzata da essere ingovernabile. Ecco perché ci sono stati gli Amato, i Ciampi, i Monti e in ultimo i Draghi. Ma ci sta bene così. Anche perché oggi i leader nei simboli ci mettono il loro cognome. Le visioni della società, dell'economia e della politica estera hanno un valore relativo. E poco importa se questi simboli prendono l'uno per cento e rotti, perché alcuni di questi leader immaginari arriveranno ugualmente al traguardo asciutti, anche avendo attraversato i nubifragi. C'è di peggio. In Austria il partito della birra ha preso tanti voti. 
Il Pd è cattivo perché, pur avendo più volte perso le elezioni (siamo una democrazia parlamentare, ma capisco che quel 'popolo' che sottopone a referendum su Facebook l'abolizione dei senatori a vita questo fatto non lo capisca fino in fondo) si è comunque fatto trovare pronto per provare a non fare sprofondare il Paese. Beh, deve smettere di farlo. Perché se chi vince le elezioni non ce la fa a governare, al netto dell'istinto di autoconservazione di indennità, pensioni e vitalizi dei parlamentari la cosa giusta da fare è tornare al voto e provare a fare uscire dalle urne un'altra maggioranza. Come fanno in Israele, dove hanno lo stesso problema di noi, se non peggio. Oppure come in Spagna. Dove però la vittoria di Fratelli d'Italia sta galvanizzando l'estrema destra, e mi sa che sono pronti pure loro a rinverdire la fiamma del loro dittatore Francisco Franco.
Giorgia Meloni ha il compito di governare. Certo, prima deve provare a tenere unita una coalizione che sta facendo le bizze (siamo in Italia, niente di strano che accada). I suoi tentativi di smarcarsi da un retaggio ingombrante (visto che c'è ancora la fiamma tricolore Fdi è a tutti gli effetti erede di un partito dichiaratamente post-fascista) si sono scontrati con il voto pro-Orban dei suoi all'Europarlamento e con la benedizione da lei stessa impartita ai franchisti di Vox. 
Se vogliamo poi parlarne, certo che i timori di un arretramento spaventoso sui diritti civili ci stanno tutti. L'elezione del sedicente ultra cattolico (nonché omofobo) Lorenzo Fontana alla presidenza della Camera è un segnale che personalmente considero più preoccupante di quella di Ignazio La Russa (non richiamo il suo ingombrante secondo nome) alla presidenza del Senato. Ma per fortuna la democrazia non è ancora morta. E non morirà. L'Italia non è uno Stato fascista. È ancora uno Stato repubblicano, con tanto di Costituzione (antifascista). E non credo che tra qualche tempo sarò costretto a cancellare questo pezzo. Così come non penso che mi toccherà di assaggiare l'olio di ricino. 
Giorgia Meloni governi. E il Pd si ricostruisca. Senza bisogno di sciogliersi e cambiare nome. Perché se questo serve a riconquistare le simpatie di chi dice che è di sinistra ma vota per Fratelli d'Italia perché la sinistra non c'è più e Berlinguer è morto direi che non ne vale la pena. Perché soggetti del genere o non capiscono niente di politica o sono semplicemente (come credo) degli emeriti cretini. Votino per chi vogliono senza mostrare di sentirsi in colpa o, peggio ancora, 
giustificarsi.

mercoledì 3 agosto 2022

Giocatori d'azzardo: sabato sera alla Lega Navale Virman Cusenza presenta il suo libro



Ci sono storie, dentro la Storia, che meritano di essere conosciute. In "Giocatori d'azzardo" (Mondadori) Virman Cusenza (già direttore de "Il Messaggero" e "Il Mattino") ce ne consegna due: da una parte quella di Enzo Paroli, avvocato antifascista bresciano, dall'altra quella di Telesio Interlandi, forbitissimo giornalista del regime fascista e dichiaratamente razzista, noto come il "ventriloquo di Mussolini". Due storie che si intrecciano, con Paroli che non solo decide di assistere legalmente Interlandi, ma di offrirgli addirittura un nascondiglio insospettabile (la sua stessa abitazione), in un momento storico a dir poco drammatico, quello che dopo il tentativo di Mussolini di rinascere nella RSI prima di essere ucciso, segnerà l'epilogo della guerra civile con le vendette dei partigiani contro i quadri dello sconfitto regime. 

Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, non ha ancora concesso l'amnistia ai vecchi gerarchi che dopo l'8 settembre hanno commesso reati politici. E così Interlandi rischia grosso, sia di fronte ai partigiani, sia di fronte al primo governo scaturito dalla Liberazione del Paese. Evade dal carcere dove è rinchiuso. Per la verità viene scarcerato a seguito di un apparente equivoco. L'avvocato Paroli ne accetta la difesa, ma favorendone la latitanza rischia di perdere la dignità di uomo democratico e antifascista e, ad un tempo, di calpestare i dettami stessi della sua professione. Ma può un avvocato rifiutare di difendere un accusato? È una delle domande che segnano da secoli la coscienza di chi esercita la professione dell'avvocato, inducendo a riflessioni su riflessioni anche chi operatore del diritto  non è ma che avrà la possibilità di leggere questo libro. 

Virman Cusenza ha portato a termine un lavoro minuzioso di ricerca e di analisi delle fonti storiche, atti pubblici e lettere private. Lo ha fatto dopo avere appreso che di questa storia si era occupato Leonardo Sciascia, paladino del Diritto nella letteratura contemporanea. Solo la morte, sopravvenuta nel 1989, gli impedì la conclusione di quel lavoro editoriale. 

Sabato sera, alle 21, alla Lega Navale, in una serata organizzata dalla libreria Mondadori di Sciacca, presenteremo questo libro. Sarò io ad avere il privilegio di intervistare Virman Cusenza. Il contenuto di "Giocatori d'azzardo" è una vera e propria riproduzione di spunti di argomenti dell'attualità. Quello che, quasi filosoficamente, merita secondo me un approfondimento è il tema della pietà per gli sconfitti. Si possono rispettare i diritti universali di una persona non solo accusata, ma anche colpevole? Ne parleremo. Vi aspetto sabato. L'evento è organizzato con la collaborazione del Rotary di Sciacca. Al termine della serata degusteremo i vini delle Cantine Feudo Arancio, partner della libreria Mondadori nella rassegna dal titolo "Libri sotto le stelle". 

domenica 23 gennaio 2022

Del voto e delle promesse, del popolo e delle ambizioni: la storia sembra destinata a ripetersi

Da un po' di anni, tutte le volte che ci avviciniamo alle elezioni amministrative rimango puntualmente stupito dalle ambizioni talvolta sfrenate di chi è pronto a candidarsi, non esitando (se necessario) a sgomitare (altro che la prosopopea retorica di chi dice "se mi verrà chiesto di sacrificarmi valuterò per il bene della collettività"). 

Sembrano preistoria le valutazioni più o meno dottrinali sul valore civico di chi mette a disposizione il proprio tempo al servizio della collettività. D'altronde a rivelare le difficoltà nell'amministrare è il consenso pubblico che, ormai in maniera puntuale e scientifica, viene rivolto a quelli che sono all'opposizione. I quali assumono su di loro il compito di interpretare l'insoddisfazione popolare (niente di male, è una delle principali regole della democrazia). Salvo, poi, precipitare nel consenso quando è il loro turno, ossia nel momento in cui tocca a costoro entrare, per dirla con Pietro Nenni, nella famigerata "stanza dei bottoni". Il ragionamento non ha colore politico, vale per tutti gli schieramenti. 

Ora, siccome io non riesco ad accettare come programma politico il punto che "la colpa è di chi c'era prima" (il caso di Musumeci che sullo sfascio delle Terme di Sciacca continua ad additare Crocetta mi sembra decisamente emblematico), bisognerebbe soltanto che i competitors avessero il coraggio, in campagna elettorale, di dire la verità agli elettori. Solo che, ahimè, la verità non produce consenso. Voglio dire che noi elettori, nella baraonda dei problemi e anche di chi li ha causati, non meritiamo alcuna assoluzione. 

Nel 2017 fu oggettivamente eccessivo lo slogan elettorale di Francesca Valenti contro l'amministrazione precedente ("Mai più 5 anni così"). Eppure fece ugualmente presa. Perché il popolo è così, e io (che per fortuna faccio un altro mestiere) al posto di Fabrizio Di Paola non mi fiderei granché di chi oggi torna ad adularlo rimpiangendone l'esperienza, perché il più delle volte sono gli stessi che gli avevano voltato le spalle e che, probabilmente, torneranno a farlo.

Ma la politica è così, e non parlo dei soliti politicanti che riescono sempre a galleggiare passando da uno schieramento all'altro come dentro una porta girevole, ma di quel cittadino a cui, nelle campagne elettorali, si fa credere quasi di disporre di poteri soprannaturali per risolvere problemi che in qualche caso sono vecchi di qualche secolo. Ci sono personaggi della politica che sarebbero in grado quanto meno di bussare alle porte giuste o di telefonare alle persone adatte, per intercettare finanziamenti. Personaggi che, però, e talvolta per bizzarre alchimie e attrazioni fatali, faticano ad ottenere il consenso adatto. È il suffragio universale, bellezza. Che, per fortuna, ancorché con tanti difetti, come quello che ho tentato di sottolineare, rimane l'unica strada possibile. La scelta della pancia, talvolta verso sedicenti taumaturghi da cui non comprerei la classica auto usata, fatalmente non produce quasi mai risultati concreti. Perché naturalmente facciamo parte, e a pieno titolo, dei 60 milioni di commissari tecnici italiani.

E allora il tutto si concretizza puntualmente nell'ennesimo atto di un teatrino dove tutti pensano di avere ragione, soprattutto se le rispettive cortigianerie glielo fanno credere. A venire fuori è l'ennesima contrapposizione in chiave farsesca tra guelfi e ghibellini, che non fa bene a nessuno. Non è tempo di teorie di alta scuola. Amministrare è difficile, e questo lo riconoscono tutti. Ma credere a scatola chiusa a chi prometterà gli immancabili effetti speciali richiede tanta ingenuità. Eppure, al di là del voto di protesta, che sembra essere l'unica (ma inutile) arma rimasta nelle mani del cosiddetto "popolo", la storia sembra destinata a ripetersi. E i giornalisti ci ritroveremo ancora una volta, come ci viene rimproverato da chi spesso "coraggiosamente" denuncia al telefono ma non vuole parlare al microfono, a parlare sempre degli stessi problemi.  


domenica 14 novembre 2021

Se del tatticismo esasperato si è stufata perfino "la maggioranza silenziosa" c'è di che preoccuparsi

Stride, nella politica odierna, quella del tatticismo esasperato, la presa di posizione di Sergio Mattarella. Che ha già fatto sapere di non intendere succedere a se stesso al Quirinale. Neanche per un mandato bis breve, nell'attesa che i "fuoriclasse" della contesa politica odierna possano mettersi d'accordo sul prossimo presidente o che possano insanguinare (le avvisaglie ci sono tutte) la campagna elettorale per le Politiche del 2023. 

Emerge, in questo quadro, una saggezza che il presidente Mattarella ha reso sempre più palpabile, rendendone evidente una personalità talmente discreta da rivelarsi lontana anni luce da un agone in cui i cosiddetti "leader" si atteggiano a superstar e i loro cortigiani a fans scatenati, disponibili a tutto pur di eccellere in qualsiasi virtù cortigiana, a partire da quelle meno nobili. 

Nel dire no alla sua stessa rielezione, il capo dello Stato è andato oltre, riprendendo una posizione già espressa da uno dei suoi predecessori più discussi, quel Giovanni Leone che aveva invocato una (condivisibile) modifica alla Costituzione nella direzione di impedire l'ipotesi stessa di un secondo mandato al presidente uscente, anche per superare quel semestre bianco nel corso del quale non possono essere sciolte le camere. Prescrizione che, in un Parlamento parcellizzato come quello italiano, è sicuramente un punto debole che rende ancora più anacronistica la nostra stessa forma di Stato. 

La prima volta che si era presentata l'ipotesi di un secondo mandato in Italia fu nel 2013, quando Giorgio Napolitano si vide costretto (a denti stretti) a prolungare il suo settennato. Nel 2015 sarebbe arrivato al Colle Sergio Mattarella. Il resto è storia nota. Così come nota è la paradossale ambizione di Silvio Berlusconi di essere eletto come suo successore. 

La sceneggiatura della storia politica italiana prevedeva che dopo Mattarella (e a seguito di una parentesi a Palazzo Chigi) al Quirinale dovesse andare Mario Draghi. Di cui probabilmente, però, ci sarà bisogno ancora come guida del governo. Difficile fare previsioni, mi guardo bene anche io da questo esercizio di stile del quale sarei soltanto l'ultimo di una lunga lista.

Ma è il tema del tatticismo esasperato quello su cui, in conclusione, voglio soffermarmi. È, quella nella quale viviamo, la politica delle mosse più o meno a sorpresa, con un'azione fatta presumendo di conoscere anzitempo la reazione dell'avversario, nel tentativo esclusivo di metterlo in difficoltà o di tarparne le ali. Una fenomenologia non certo nuova, intendiamoci. Tuttavia, se in passato il gioco delle parti vedeva protagoniste personalità dallo spessore culturale indubitabilmente più robusto, oggi siamo di fronte a un cast di quelle che un tempo non avrebbero avuto nemmeno la dignità delle terze linee. 

Il tatticismo ha reso la politica (purtroppo a tutti i livelli) sempre più autoreferenziale e distante dal sentire comune. E per sentire comune non intendo certamente le cortigianerie ma, piuttosto, quella che un tempo veniva definita "maggioranza silenziosa", quella composta da tante persone che chiedono soltanto le cose normali. I dati sull'affluenza alle urne (adesso precipitati perfino a livello locale, cosa che secondo me deve preoccupare) ci dicono che perfino la maggioranza silenziosa si è stancata di questi politici che giocano a scacchi e puntano sul carrierismo. È a loro che Sergio Mattarella ha inflitto una lezione di eleganza. 

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...