domenica 14 luglio 2019

Il vero giudizio rimane quello non contaminato dalle emozioni

La legge è uguale per tutti? È un tema quasi secolare quello che voglio affrontare oggi. Molti di noi, di fronte a questa dicitura tesa, ben oltre l'estetica dell'enunciato, a garantire in maniera concreta i principi di imparzialità, terzietà ed equidistanza, continuiamo ancora oggi a sollevare dubbi e perplessità. Il confronto è inevitabile tra il valore delle leggi e la predisposizione d'animo di chi è chiamato a farle applicare, attraverso le sentenze. 

La fragilità, il trasporto emotivo, l'impulsività: sono aspetti della vita che hanno attinenza con l'uomo, indipendentemente dal censo, dal titolo di studio, dall'equilibrio mentale e dalla predisposizione dell'animo. Gli stessi operatori del diritto, a partire dai magistrati (mi riferisco soprattutto a coloro che operano nel ramo giudicante) non sono dispensati da tutto questo.

I (vergognosi) giochi di potere all'interno del CSM hanno evidenziato un sistema nel quale, lo stesso fondamentale prestigio del Potere giudiziario, ha subito il più deleterio degli offuscamenti, rivelando che non esiste categoria umana (né tanto meno professionale) che possa dirsi indenne dalla contaminazione delle ambizioni e degli interessi privati. 

Eppure, se il sistema giudiziario italiano continua a garantire un giudizio finale (cosa che non a caso avviene dopo almeno 3 gradi di processo) improntato sulla valutazione oggettiva dei fatti svolta da più soggetti e diversi tra loro, è perché l'ultimo giudice può correggere gli eventuali errori commessi dal primo, ma anche dal penultimo. 

Tutta questa premessa mi è necessaria per parlare della estrema facilità con la quale oggigiorno ci si trasforma in giudici, ancorché senza toga (per fortuna, oserei dire). Non volendo scomodare Umberto Eco, è indubbio che i social, da questo punto di vista, abbiano indotto il più innocuo degli utenti a compiaciuto sentenziatore, con procedure tutt'altro che oggettive, quasi sempre sostenute da valutazioni esclusivamente emotive o collegate alle proprie opinioni politiche, sociali, religiose, perfino gastronomiche, oggi anche razziali. 

Nel tritacarne delle "condanne" finiscono così stili di vita, orientamenti sessuali, pensieri e azioni. Se questi sentenziatori appartenessero al Potere giudiziario, ci sarebbe di che preoccuparsi. Certo, anche i magistrati sono uomini e donne, e anche loro sono in qualche maniera condizionabili. Eppure il miglior giudice che si possa avere la fortuna di incontrare sulla propria strada rimane colui o colei che, nella propria decisione, quella assunta "in nome del Popolo italiano" abbia la capacità di tenere fuori le proprie emozioni. Ed è, questo, un punto nodale dell'intero ragionamento. Perché il tentativo di condizionare politicamente il potere giudiziario continua anche oggi a cavalcare l'onda emotiva di un popolo che dimentica troppo spesso che al di sopra di tutto rimane lei: la Legge. 

Un popolo nel quale perfino il più rigoroso sostenitore dell'equità, se poi è alla sua porta che la Giustizia va a bussare, perde la bussola, si disorienta e guarda alla realtà solo con gli occhi rossi di rabbia. Eppure oggi c'è più bisogno che mai della Giustizia della Legge, e non di quella degli uomini. Anche se sono gli uomini che applicano la legge, s'intende. Ce la faremo? 

Nessun commento:

Posta un commento

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...