Nel suo film "Esterno notte", dedicato alla tragedia di via Fani e agli eventi privati e pubblici attorno al rapimento e all'uccisione di Aldo Moro, Marco Bellocchio propone una chiave di lettura che, alla ricostruzione storica, affianca anche alcune libere interpretazioni con evidenti e forse inevitabili finalità drammaturgiche. Questo fatto è stato oggetto di polemica, anche dalle nostre parti, da parte di personalità di primo piano di quella che fu la Democrazia cristiana di quegli anni, a cominciare dal mio amico onorevole Lillo Pumilia. A cui riconosco una straordinaria capacità di oggettivare i suoi ragionamenti, anche quando questi riguardino o esaminino persone o vicende a lui vicine.
E, devo ammettere, onestamente non è mai stato accertato che Moro, in una confessione che sarebbe avvenuta nella "prigione del Popolo" a don Mennini, abbia detto al prete di odiare Giulio Andreotti (ancorché accusando, per questo motivo, un cristiano senso di colpa). E, d'altra parte, anche se la confessione ci fosse davvero stata, il segreto di quella confidenza non avrebbe potuto essere svelato se non violando forse il più monumentale dei precetti della religione cattolica.
È un fatto passato alla storia, tuttavia, quello riguardante la decisione della famiglia Moro, che rifiutò i funerali di Stato. Che, per inciso, furono celebrati lo stesso ma in assenza del feretro in chiesa. Le spoglie mortali di Aldo Moro erano state benedette in cerimonia privata.
Così come è un fatto che fu scritto nero su bianco dallo statista (accusato anche per questo fatto di non essere più lucido a causa della sua prigionia) "Il mio sangue ricadrà su di loro", riferendosi espressamente ai capi del suo partito, che con la "linea della fermezza", avallata dal PCI, di fatto lo condannarono a morte. Da appassionato di cinema, ho apprezzato la ricostruzione scenografica, la regia (sul piano tecnico) e le prove di altissimo livello degli attori del cast, a partire da quella di Fabrizio Gifuni. La parte del film relativa alla ricostruzione per così dire "fantasiosa" da parte di Marco Bellocchio personalmente non la ritengo scandalosa. Sì, in alcuni frangenti forse è forzata, e non sarò certamente io a negare che possa in qualche maniera risentire di possibili condizionamenti ideologici dell'autore. Quella di Bellocchio però rimane, in ogni caso, una chiave di lettura legittima, compresa la suggestione del finale che non è stato, quello di Moro vivo (sperato da Cossiga)
, che apre gli occhi ed esce dal cofano della Renault 4 parcheggiata in via Caetani incamminandosi verso un futuro che, invece, nella realtà era già stato interrotto. Non si possono pretendere da un film rigorosissime ricostruzioni fattuali. Tanto più che ci sono fatti rimasti tuttora senza spiegazione. Per le ricostruzioni fattuali ci sono i documenti e i documentari.
Qualche giorno fa ho presentato a Sciacca, invitato dalla mia amica Ornella Gulino della libreria Ubik, un libro sul caso Moro. Si intitola "Il Dio disarmato", di Andrea Pomella, pubblicato da Einaudi. Sul piano della collocazione dei fatti ci fermiamo solo a via Fani. Ma se ci si chieda in quale altro modo, dopo tutti quelli a cui scrittori, giornalisti e storici hanno fatto ricorso in 44 anni, sarebbe stato possibile raccontare l’agguato di via Fani, io credo che la risposta sia proprio in questo libro. Nel quale l’autore attraversa più volte, e con una scrittura potente e intensa, i 3 minuti di quello che, citando il titolo della grande inchiesta televisiva di Sergio Zavoli, è stato il momento più buio della “Notte della Repubblica”. E, d’altronde, il grande giornalista dedicò ben 3 delle 18 puntate di quel programma che, parlo da giornalista, avrebbe dovuto, così come dovrebbe ancora, fare parte della materia storica dell’istruzione pubblica.
Qualche giorno fa ho presentato a Sciacca, invitato dalla mia amica Ornella Gulino della libreria Ubik, un libro sul caso Moro. Si intitola "Il Dio disarmato", di Andrea Pomella, pubblicato da Einaudi. Sul piano della collocazione dei fatti ci fermiamo solo a via Fani. Ma se ci si chieda in quale altro modo, dopo tutti quelli a cui scrittori, giornalisti e storici hanno fatto ricorso in 44 anni, sarebbe stato possibile raccontare l’agguato di via Fani, io credo che la risposta sia proprio in questo libro. Nel quale l’autore attraversa più volte, e con una scrittura potente e intensa, i 3 minuti di quello che, citando il titolo della grande inchiesta televisiva di Sergio Zavoli, è stato il momento più buio della “Notte della Repubblica”. E, d’altronde, il grande giornalista dedicò ben 3 delle 18 puntate di quel programma che, parlo da giornalista, avrebbe dovuto, così come dovrebbe ancora, fare parte della materia storica dell’istruzione pubblica. 

