sabato 23 febbraio 2019

Esegesi della "cheppa": non un indumento, ma una filosofia di vita

Fatemi giocare un po'. Lo faccio attraverso una (tentata) esegesi della cheppa. Ma sì, il celeberrimo scialle di lana trapuntata, di quelli che le nostre nonne un tempo sferruzzavano e poi indossavano e ostentavano come sorta di scettro matriarcale, paramento laico che identificava la custode del potere temporale di chi, proprio con la cheppa sulle spalle, governava l'economia domestica e, in qualche caso, fingeva che la decisione finale su tutte le scelte più importanti spettasse al marito. 
Era anche il tempo, però, nel quale già a quarant'anni la donna era considerata vecchia, senza istinti né voglie. Donna che talvolta esiliava se stessa immolandosi nell'iconografia sacrale del fazzoletto sulla testa, a simboleggiare il superamento periodico di tutti i confini: da figlia a moglie, da mamma a nonna. 
Donne che, eppure, spesso erano assai più attraenti e sexy dei simboli dell'emancipazione, quelli rappresentanti dalle protagoniste dell'arte, della moda, del cinema, della canzone, ma anche della borghesia e della nobiltà. Se ne accorgevano quei potenti che esercitando il proprio potere nel modo più spregiudicato, possedevano e ingravidavano le proprie donne di servizio. Vigliacchi che dopo averle compromesse raramente facevano il loro dovere riconoscendone i figli. 
Le altre se potevano facevano ricorso alla cheppa utilizzandola anche come una sorta di scudo delle proprie virtù, in grado di respingere ogni insidia che la sola parvenza dello sguardo di un uomo potesse generare. Eppure sotto la cheppa si nascondeva di tutto: la femminilità sopita, l'erotismo soffocato, lo scalpiccio domato dell'istinto sessuale.
Sì, siamo tutti affezionati all'immagine più ospedaliera che casalinga di questo accessorio che nella nostra cultura non è stato solo un indumento. No, la cheppa è ancora oggi una filosofia di vita, accettata in qualche caso come il più ineluttabile dei destini, in un'osmosi irripetibile tra società e umanità, con l'obiettivo di tentare di asfissiare sul nascere ogni progetto che rappresentasse l'ipotesi di una vita diversa. Ma già la stessa idea di diversità era sconosciuta al culto di una società repressa e fondamentalista. 

domenica 17 febbraio 2019

In una comunità di dissociati come la nostra a morire è stata la cultura, non le ideologie

Ieri, durante la presentazione del libro "Giostre" di Cetta Brancato, la professoressa Angioletta Scandaliato ha stimolato in me una riflessione. È successo nel momento in cui, all'interno di un'analisi culturale molto articolata (da cui, lo ammetto, non è del tutto legittimo decontestualizzare solo una frase), ha affermato che viviamo in un'epoca nella quale "le ideologie politiche sono morte". Mi permetto di dire la mia.
È un mondo, quello in cui viviamo, che sa solo accapigliarsi. Una comunità alimentata dalla deriva peggiore del fenomeno social nella quale, come novelli agguerritissimi guelfi e ghibellini, fazioni contrapposte si riproducono come conigli, sublimando la polemica, schizzandola di quel sangue virtuale rivelatore di una rabbia che, rispetto alle reazioni fisiche, fortunatamente, si riesce ancora a soffocare. Lo scontro sembra venire perseguito come obiettivo, e non considerato come variabile marginale.
Il paradigma marxista del "conflitto di classe" si è sicuramente evoluto. D'altra parte le "classi" per come si intendevano un tempo non ci sono più. Così come non c'è più neanche quel "Paradiso" che, nell'apoteosi della concezione utopistica del futuro, avrebbe dovuto spalancare le porte agli operai, simbolo dell'affrancamento di quel proletariato sfruttato dal padrone. 
Le classi sociali in realtà oggi sono solo caratterizzate da autentiche, stazioni dove le sale "arrivi" e "partenze" sono sempre affollatissime, e dove il ricambio è veloce come se all'ingresso e all'uscita ci fosse una grande porta girevole. 
È indubbio come oggi sia diventato oltremodo complicato, soprattutto per i partiti politici, riuscire ad avere una platea di riferimento con la quale interloquire. A rivelarlo furono già dalla fine degli anni Ottanta il disorientamento degli stessi lavoratori, molti dei quali non esitarono, qualche tempo dopo, ad affidare il loro destino perfino a Berlusconi. 
Un fenomeno che iniziò ad inquinare gli schemi della politica per come li avevamo conosciuti. Un processo forse fisiologico, ma che non può consentire di mettere da parte impostazioni culturali, basi storiche, analisi critiche e fatti incontrovertibili.
La mia conclusione è che no, le ideologie non sono affatto morte. Ad essere in coma, piuttosto, è la cultura. Non si sente più il bisogno di capire, discernere, esaminare le singole proposte. Schematizzando: ci sono comunisti che hanno nostalgia del PCI ma che, eppure, in attesa del ritorno a quella politica che a loro manca tanto, nel frattempo premiano la Lega di Salvini. Messa così le ideologie sono morte, eccome se lo sono. Ma analizzando i fatti oggi a prevalere è la reazione della pancia, il virgulto delle emozioni e della rabbia. Quanto durerà? Non lo so. Le ideologie sopravvivono ancora in chi, pur non disdegnando certo critiche legittime ai partiti tradizionali, non si precipita certo a premiare impostazioni politiche e culturali che vanno in una direzione totalmente opposta rispetto ai propri convincimenti. Ma in una comunità di dissociati, come è diventata la nostra oggi, succede e succederà ancora. La cultura salverà il mondo. Ma al momento è in rianimazione.

martedì 12 febbraio 2019

Credenze e ignoranza emarginarono Mia Martini: artista uccisa dalla superstizione

La parabola umana di Mia Martini è, ahimè, simbolica di quella porzione di degrado morale causato dalla superstizione e dalla cattiveria. Degrado da cui scaturisce anche la violenza, forse non fisica, ma non per questo meno rilevante. Un'artista facilmente emarginata dallo showbiz a seguito di assurde dicerie sul suo conto. "Porta sfortuna". Chissà chi fu il primo "genio" a sostenerlo. Sta di fatto che da quel momento in poi iniziò la discesa verso l'inferno. Il Sanremo 1989 fu lo spartiacque della sua vita. Con "Almeno tu nell'universo" ricordò a tutti il suo straordinario talento. Ma il danno d'immagine subito era stato devastante. Morirà nel 1995. 
La Rai le rende omaggio con una fiction. È un tributo postumo, tardivo quanto si voglia, ma le è dovuto. Ma, come si può capire, dall'inquisizione in poi, le conseguenze di credenze assurde, quelle di chi ancora oggi crede al malocchio, hanno rovinato la vita di questa donna. Una credenza si diffonde in maniera capziosa e pericolosa. Eppure, pur sapendo che la superstizione è un'azione in contrasto con la scienza, perfino le menti più razionali cadono nel tranello, lasciandosi andare a scongiuri e alla scuola di pensiero introdotta da Peppino De Filippo: "Non è vero ma ci credo". Nella vita di tutti i giorni una maldicenza del genere è pericolosa. Nel mondo dello spettacolo può essere la fine. 

domenica 10 febbraio 2019

La frustrazione autoassolutoria di chi brandisce le foibe solo come contraltare ideologico


Solo in un Paese culturalmente malato e politicamente rancoroso una tragedia di straordinaria crudeltà come quella delle foibe può essere brandita come un'arma ideologica e strumentalizzata come bizzarro (sedicente) contraltare della storia. Eppure accade anche questo. Perfino questo, oserei azzardare.
La "sfida" è chiara: se i nazifascisti furono assassini, allora i comunisti non furono da meno. Una specie di "lezione della storia" che dimostra, quantomeno una verità imbarazzante, agitata come un vessillo politico al solo scopo di riscattare (si fa per dire) la marginalizzazione politica della Destra più becera, picchiatrice e violenta che durante il Ventennio, al soldo dell'asse Roma-Berlino, aveva manganellato, somministrato olio di ricino, ucciso e lasciato uccidere. Un tentativo, dunque, di contestare, contrapponendo una tragedia ad un'altra tragedia (la lotta partigiana contro la dittatura fascista e i suoi derivati) la presunta sedicente superiorità morale della Sinistra.
Si alza così l'asticella, con l'obiettivo finale di equiparare, se non nelle finalità nei metodi della lotta, partigiani e fascisti.
"Se voi sonerete le vostre trombe, noi soneremo le nostre campane!", dice Pier Capponi a Carlo VIII. Ma il tentativo di volere dimostrare che fascisti e partigiani "pari sono" che personalmente trovo ridicolo.
Al culmine di una guerra civile non esistono azioni giuste o sbagliate. Violenza chiama violenza, assassinio chiama assassinio, crudeltà chiama crudeltà. Da antifascista, per esempio, io trovo a dir poco vergognosa la pagina di Piazzale Loreto, anche se non è mai corretto decontestualizzare un singolo episodio dalla storia più ampia.
La sensazione finale è che agli "anticomunisti" le vittime delle foibe interessino solo fino ad un certo punto, e che la loro necessità vera sia quella di disporre di un appiglio per fronteggiare la frustrazione di chi non ha mai accettato l'esito della storia fascista.
E allora io rispetto le vittime delle foibe. Furono vittime innocenti di una criminale pulizia etnica avallata dal regime di Tito. Così come rispetto, però, le vittime della repressione di una dittatura fascista sanguinaria e assassina, i cui protagonisti non meritano alcun rispetto, né quello umano, né tanto meno quello politico. Nessuno mi toglie dalla testa che, più o meno intimamente, chi insegue di continuo la necessità di ricordare al mondo che i 6 milioni di morti della Shoah sono ben pochi rispetto ai 20 milioni uccisi da Stalin, non abbia alcun interesse nei confronti di un aspetto umanista, ma solo un'esigenza autoassolutoria rispetto a quella che considera la menata del fascismo che tolse i diritti e uccise i dissidenti (a partire da Giacomo Matteotti) ma che, al tempo stesso, fece anche cose buone (sic!), dall'architettura ai treni che arrivavano in orario
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mercoledì 6 febbraio 2019

Ridurre il numero dei parlamentari? Condivido, ma se lo fu quella di Renzi anche questa è solo propaganda

Inizia domani, al Senato, la discussione sulla proposta di "taglio" di 345 parlamentari. La proposta è di Movimento 5 stelle e Lega. Non è un percorso agevole ma, personalmente, è un tentativo che condivido. Non posso non evidenziare, infatti, che secondo me i parlamentari in Italia sono troppi. E, inoltre, soprattutto con le recenti leggi elettorali, oggi tutto rappresentano fuorché il territorio. 

Ma per ridurre questo numero di parlamentari occorrerà una riforma costituzionale e, eventualmente, un referendum confermativo. Storia già vista. Di conseguenza, almeno al momento, tutto è solo fuffa. Tanto più che quando c'è stata la possibilità di abolire il Senato la netta maggioranza degli italiani ha votato No solo ed esclusivamente (come tutti sanno) per fare un dispetto a Matteo Renzi. 

Che, certo, se fosse stato più accorto e meno egocentrico non avrebbe personalizzato quella che sarebbe stata una riforma istituzionale di tutti, e non una vittoria politica personale. Eppure, a pensarci, oggi avremmo 315 parlamentari in meno e, soprattutto, non avremmo più il "bicameralismo perfetto" e la "navetta" tra Camera-Senato. Ma questa è un'altra storia. Quella attuale che la propaganda fa male alla salute. E al fegato.

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...