martedì 3 dicembre 2019

Elogio delle tre verità (la mia, la tua e la Verità)

Un antico ma sempre efficace proverbio cinese ci ricorda che esistono tre tipi di verità: la prima è la mia, la seconda è la tua, la terza è la verità. Trovo istruttivo farvi ricorso nel ricordare che, nelle chiassose e affollate tribune delle opposte tifoserie (politiche anziché no), oltre al senso della responsabilità continua a mancare un elemento fondamentale: sì proprio quella, la verità da considerarsi nella sua fattispecie oggettiva, senza elasticità né rigidità di comodo. Ah, manca poi anche la concezione stessa di "interesse pubblico" anche qui nel senso oggettivo, non certo nell'accezione della convenienza fine a se stessa. Da Roma a Palermo, da Sciacca a Milano, il teatrino pervade la vita pubblica. Aizza il sentire comune (ma non se ne fa interprete), improvvisa (ma non sceneggia), rinfaccia (ma non ragiona), condanna (ma non si umilia). Confusione e paura assurgono a demoni che aleggiano su un'agorà esasperata, irritazioni represse incitano all'odio reciproco. E così della verità si fa vituperio giornaliero: non è essa l'obiettivo finale, ma chi ne costruisce la migliore versione, la più affascinante, come una specie di Belzebù tentatore che modella menti sempre più facilmente plasmabili. La verità è quasi sempre scomoda, sovente irraggiungibile. Tanto è vero che perfino le sentenze dei procedimenti giudiziari sono in grado di definirla solo come "verità giudiziaria". La verità assoluta è un concetto troppo importante perfino in un processo. Non è sincero chi ci indica la Verità perfino nel titolo di un giornale manifestamente partigiano, o chi ce la promette nel titolo di un articolo ("Vi racconto la verità") oppure in quello di un libro (la Verità su"). Solo la religione può neutralizzare la filosofia, ma non è la Verità divina quella che può permetterci di farci fare i conti con la realtà, tutt'al più ce li fa fare con noi stessi. Il tentativo dunque rimane quello di capire, mentre ci azzanniamo come cani sul senso del possesso della verità, quale sia quella reale, in una sublimazione forse irrealizzabile, ma che non deve vedere l'Uomo sottrarsi dal tentativo di raggiungerla. Senza scomodare più di tanto Immanuel Kant.


domenica 22 settembre 2019

C'era una volta a Hollywood: prima di andarlo a vedere bisogna conoscere la storia della tragedia di Bel Air


"C'era una volta a Hollywood" non è semplicemente un film. Piuttosto è un un antifilm, con qualche escursione nel genere da film nel film. Il tutto con un obiettivo finale, che personalmente considero poetico (non mi sbaglio, l'aggettivo è proprio quello che voglio usare, malgrado l'immancabile parentesi splatter che, stavolta, Quentin Tarantino ha concentrato in un'unica scena). Un obiettivo finale che è la sliding door immaginifica, quella che avrebbe potuto consegnare alla storia un esito diverso da quello reale. Mi riferisco alla strage di Bel Air, l'assassinio di Sharon Tate, bellissima attrice moglie di Roman Polanski e dei suoi amici nella casa sulle colline di Cielo Drive ad opera dei figli indemoniati di quel criminale di nome Charles Manson.
Ho letto delle critiche, qua e là. Ciascuno è libero di pensarla come vuole. Anche io, naturalmente. Addirittura c'è chi si lamenta, dopo avere visto questo film, di avere sprecato tre ore della propria vita. Esagerato. Spesso ci si dimentica che un film non è un documentario, ma un'opera d'arte. E un'opera d'arte non è sempre costretta a darci tutte le risposte che pensiamo debba fornire alle nostre esageratamente innumerevoli domande. Trovo che "C'era una volta a Hollywood" sia una rappresentazione di quel cinema ricco di omaggi (anche al nostro cinema, quello italiano) che Tarantino non manca mai di fare. Sul piano tecnico, che ve lo dico a fare? 
L'unica raccomandazione utile, prima di andarlo a vedere, riguarda la conoscenza dell'episodio storico della tragedia di Bel Air. È assolutamente necessario prima di guardare il film, altrimenti rischiate di non comprendere né prologo, né contesto storico né epilogo. Vorrei dire di più, ma temo di spoilerare. 
A me Tarantino piace perché non brama dalla voglia di stupire. Lo fa con naturalezza. Poi non posso non dire che Leonardo Di Caprio ha raggiunto livelli di espressività e di recitazione ormai incommensurabili. P.S. Non dirò mai, dopo avere visto un film, di avere sprecato qualche ora della mia vita. Tutt'al più dirò che non mi è piaciuto.
In programmazione al Cine Campidoglio. 

venerdì 16 agosto 2019

Lettera ai dispensatori di consigli: con una responsabilità addosso non durereste che una settimana


Sciacca continua a dimostrare di volere essere il luogo della conoscenza senza appello: una irripetibile "piazza di scontro" tra opposte fazioni, dove tutti i contendenti pretendono di saperla lunga e di avere ragione. 
La mia città è così oggi il crocevia di una fiera della presunzione collettiva, nella quale la capacità generalizzata di "prevedere il futuro" fa il paio con la facoltà diffusa di sapere (naturalmente in anticipo) cosa sia giusto e cosa no.
Ne viene fuori un mondo dolente e infelice, tra accuse, ripicche, attacchi e sentenze pronunciate senza conoscere le cose (ad esempio le ragioni vere di talune scelte, a partire da quelle compiute non certo a cuor leggero).
Un clima litigioso, che viene cavalcato in maniera talvolta meschina da una politica locale che dimostra solo di obbedire sempre e solo il vecchio adagio: "levati tu che mi ci metto io". Ho sempre pensato che stare all'opposizione sia l'esercizio più facile del mondo. Una considerazione che, per quanto mi riguarda, vale per chi oggi è in minoranza, ma anche per chi oggi sta amministrando. Un'impostazione che, dunque, se vale per le parti in causa oggi, valeva in egual misura e a parti invertite per quelle in causa ieri e l'altro ieri. 
Chi è all'opposizione se la sbriga sempre facilmente, interpretando (nella maggior parte dei casi) i sensi peggiori di una comunità bisognosa di scontro e di sangue. Chi è al governo invece scopre improvvisamente, di fronte ad un problema, di essere in grado di spaccare il capello in 4, in 8, perfino in 16 pur di giustificare la propria manchevolezza. Eppure quando era all'opposizione non aveva interesse a dimezzare un panino, altro che spaccare il capello in 4. 
La verità è che agli schiacchitani piace (da morire) piangersi addosso (io che scrivo non mi autoescludo). E lo specchio di questa comunità è una politica che naturalmente litiga, immaginando che il cittadino non dubiti della bontà della propria tesi. E così, dai fuochi d'artificio che non si sono fatti al biodigestore alla Kronion, tutti sanno tutto, tutti hanno una spiegazione, e tutti si sorprendono del fatto che la propria soluzione non sia stata adottata da chi di dovere. 
Piace da morire, tuttavia, allo sciacchitano, dispensare i propri consigli stando comodamente seduto in poltrona, senza responsabilità, senza firme da apporre, senza la necessità di fare economia, di rispettare gli equilibri finanziari e quelli sociali. Dagli un ruolo di responsabilità allo sciacchitano dispensatore di consigli: non durerà che una settimana. Dopodiché tornerà comodamente a sedere in poltrona e a dare le pagelle agli altri.

Costituzione e voltafaccia: quando le bugie hanno le gambe corte

I
Il tritacarne comunicativo di questi ultimi giorni di crisi del governo Conte, sta confermando la deriva senza fine di una civiltà dell'immagine che fagocita (senza alcuna pietà) cultura e buona educazione. Non è da oggi, d'altronde, che si immagina che il consenso politico possa permettere di violare le regole. Mi soffermerò brevemente sull'iniziativa riguardante il "taglio dei parlamentari". Farò un paio di considerazioni non tanto nel merito della proposta, quanto nel metodo dichiarato per conseguire l'obiettivo. Questione, quella del metodo, che merita di essere esaminata attentamente, posto che taluni protagonisti della politica immaginano impunemente di potere convincere l'opinione pubblica della giustezza della propria proposta rifilando, consapevolmente (e, dunque, colpevolmente), delle idee a dir poco strampalate e fuori dalla Costituzione.

Sostenere, così come ha fatto Luigi Di Maio, che "in due ore" si possono abolire 345 parlamentari per poi così tornare a votare, è una sorta di affronto al buonsenso che, personalmente, considero inaccettabile. L'accettazione di questa "sfida" da parte di Matteo Salvini (chen come fece Renzi, rischia di diventare vittima della sua stessa ambizione) conferma la necessità dei politici di oggi di "stare sul pezzo", senza attribuire importanza alcuna alla correttezza delle metodologie previste. Trascurare, come è stato fatto, che il taglio dei parlamentari richiede una riforma di tipo costituzionale, con approvazione di un apposito disegno di legge che deve essere approvato da entrambe le Camere con maggioranza qualificata (i 2/3 dei componenti) e con, in più, il meccanismo della "doppia lettura" ("due approvazioni due"  per un totale di "quattro" a distanza (ciascuna Camera) di almeno tre mesi l'una dall'altra, è un fatto di una gravità inaudita, così come, per vie informali, il Quirinale sembra già aver fatto rilevare.
La necessaria doppia approvazione del Parlamento di una riforma costituzionale può essere fatta anche a maggioranza semplice. Tuttavia, in questo caso, occorre poi un referendum confermativo dove (indipendentemente dall'esito finale), è richiesta la partecipazione al voto di almeno il 50% più uno degli aventi diritto. Questione, quest'ultima, che mi richiama alla mente la consultazione-suicidio di Matteo Renzi, quella del 4 dicembre del 2016, quella che prevedeva la sostanziale abolizione del Senato come camera elettiva (in un sistema di "bicameralismo perfetto", dove entrambi i rami del Parlamento fanno la stessa identica cosa). 
La conclusione è che il popolo non può essere talmente bue da pensare che "in due ore" si possa ridurre il numero dei parlamentari. Sostenerlo significa tentare di prendere in giro le persone. Il punto è che, ahimè, alcune persone accettano di farsi prendere in giro.
Un'ultima annotazione, nel dibattito odierno, desidero farla sullo scontro Conte-Salvini. La presa di distanza del premier (sfiduciato dal Papeete Beach, poveri padri della Patria dove siete?) sul tema dell'immigrazione non mi intenerisce. Rivela, piuttosto, una presa di distanza ahimè tardiva da parte del capo del Governo (e dei ministri Trenta e Toninelli) su talune porcherie commesse in un anno nel solco dei porti chiusi e della (inesistente, come chi ha buonsenso sa bene) "emergenza immigrazione". Prendere le distanze oggi da una politica che ha osteggiato l'accoglienza e reso l'Italia un Paese razzista mi sembra tardivo. Così come la improvvisa campagna mediatica del Movimento 5 Stelle contro Salvini (a cui eppure hanno agevolato non uno, ma due "decreti sicurezza") mi sembra l'ennesimo atto della solita farsa all'italiana, dove l'amico di oggi diventa il nemico di domani. Non sarà sufficiente l'aggressione social a Salvini (che ha letteralmente perso la bussola, dopo avere tirato la corda ed essersi infilato in un tunnel senza uscita) a rifare la verginità a Conte e a Di Maio.

domenica 14 luglio 2019

Il vero giudizio rimane quello non contaminato dalle emozioni

La legge è uguale per tutti? È un tema quasi secolare quello che voglio affrontare oggi. Molti di noi, di fronte a questa dicitura tesa, ben oltre l'estetica dell'enunciato, a garantire in maniera concreta i principi di imparzialità, terzietà ed equidistanza, continuiamo ancora oggi a sollevare dubbi e perplessità. Il confronto è inevitabile tra il valore delle leggi e la predisposizione d'animo di chi è chiamato a farle applicare, attraverso le sentenze. 

La fragilità, il trasporto emotivo, l'impulsività: sono aspetti della vita che hanno attinenza con l'uomo, indipendentemente dal censo, dal titolo di studio, dall'equilibrio mentale e dalla predisposizione dell'animo. Gli stessi operatori del diritto, a partire dai magistrati (mi riferisco soprattutto a coloro che operano nel ramo giudicante) non sono dispensati da tutto questo.

I (vergognosi) giochi di potere all'interno del CSM hanno evidenziato un sistema nel quale, lo stesso fondamentale prestigio del Potere giudiziario, ha subito il più deleterio degli offuscamenti, rivelando che non esiste categoria umana (né tanto meno professionale) che possa dirsi indenne dalla contaminazione delle ambizioni e degli interessi privati. 

Eppure, se il sistema giudiziario italiano continua a garantire un giudizio finale (cosa che non a caso avviene dopo almeno 3 gradi di processo) improntato sulla valutazione oggettiva dei fatti svolta da più soggetti e diversi tra loro, è perché l'ultimo giudice può correggere gli eventuali errori commessi dal primo, ma anche dal penultimo. 

Tutta questa premessa mi è necessaria per parlare della estrema facilità con la quale oggigiorno ci si trasforma in giudici, ancorché senza toga (per fortuna, oserei dire). Non volendo scomodare Umberto Eco, è indubbio che i social, da questo punto di vista, abbiano indotto il più innocuo degli utenti a compiaciuto sentenziatore, con procedure tutt'altro che oggettive, quasi sempre sostenute da valutazioni esclusivamente emotive o collegate alle proprie opinioni politiche, sociali, religiose, perfino gastronomiche, oggi anche razziali. 

Nel tritacarne delle "condanne" finiscono così stili di vita, orientamenti sessuali, pensieri e azioni. Se questi sentenziatori appartenessero al Potere giudiziario, ci sarebbe di che preoccuparsi. Certo, anche i magistrati sono uomini e donne, e anche loro sono in qualche maniera condizionabili. Eppure il miglior giudice che si possa avere la fortuna di incontrare sulla propria strada rimane colui o colei che, nella propria decisione, quella assunta "in nome del Popolo italiano" abbia la capacità di tenere fuori le proprie emozioni. Ed è, questo, un punto nodale dell'intero ragionamento. Perché il tentativo di condizionare politicamente il potere giudiziario continua anche oggi a cavalcare l'onda emotiva di un popolo che dimentica troppo spesso che al di sopra di tutto rimane lei: la Legge. 

Un popolo nel quale perfino il più rigoroso sostenitore dell'equità, se poi è alla sua porta che la Giustizia va a bussare, perde la bussola, si disorienta e guarda alla realtà solo con gli occhi rossi di rabbia. Eppure oggi c'è più bisogno che mai della Giustizia della Legge, e non di quella degli uomini. Anche se sono gli uomini che applicano la legge, s'intende. Ce la faremo? 

mercoledì 3 luglio 2019

Il tempo e la memoria tra ricordi e suggestione

Una delle suggestioni che da sempre mi appassionano riguarda lo scorrere del tempo: parlo della trasformazione umana, sia in ordine a quello che si vede (la materia) sia riguardo a ciò che sfugge agli occhi (i sentimenti). Sul rapporto spazio-tempo cinema e letteratura hanno giocato moltissimo, ispirando storie ora di impronta filosofica, ora di stampo fantascientifico, con espressioni narrative e visionarie talvolta affascinanti, riuscendo talvolta, attraverso l'ausilio di effetti speciali mirabolanti, a suscitare emozioni irripetibili. Espressioni visive incentrate su fatti chiaramente di impossibile concretizzazione (per esempio i viaggi nel tempo) ma, comunque, utili a raccontare l'uomo attraverso la rappresentazione di metafore dell'esistenza dal contenuto in qualche caso assai più profondo di una narrazione di stampo realistico.

Fateci caso: osservando una foto in bianco e nero, sembra che i soggetti immortalati parlino ai discendenti che li guardano tenendo un'istantanea tra le dita. Discendenti che possono essere anche loro stessi più grandi. O più vecchi. Molti ricorderanno, ne "L'attimo fuggente" di Peter Weir, la scena in cui il professor John Keating, con gli occhi e il volto del compianto Robin Williams, invita i suoi studenti ad avvicinarsi alle foto dei vecchi annuari del college per percepire, disperso negli anni, ciò che rimane dell'invocazione dei loro predecessori fatta sotto forma di sussurro: "Cogliete l'attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita". Carpe Diem

Si può forse negare come una semplice fotografia sia una sorta di suggello dell'immortalità? Ne ha bisogno perfino una tomba, almeno nella tradizione cristiana, come sorta di contraltare della più inaccettabile delle realtà. Una fotografia, un filmato, rappresentano così il tentativo dell'uomo di contrapporsi all'ineludibilità. Ma quando ci guardiamo in una istantanea dovremmo renderci conto che quelli nella foto non siamo noi. Non più, almeno. Nel preciso istante in cui il flash ci ha accecati eravamo noi. Ma già dopo un secondo non lo eravamo più. Eravamo altro, vissuto ma abbandonato nelle viscere di un passato che presto sarebbe diventato remoto. 

Quando ci imbattiamo non in una foto che non vedevamo da anni, ma in un reperto che ci ritrae ma che non avevamo mai visto prima (ad esempio uno scatto durante una festa di ragazzi, fatto da qualcuno che magari neanche conoscevamo) proviamo sensazioni molto forti. Quando visioniamo le immagini in Super 8 di noi bambini, dell'epoca che fisiologicamente si cancella dalla nostra memoria dopo i 5 anni, guardiamo ammaliati, alla ricerca di quel "noi" di cui abbiamo perduto il controllo, di quella tenerezza della carezza materna che giocoforza avrebbe poi preso altre forme. 

Cercatevi, dunque. Fatelo nelle foto che pensate qualche amico, una vecchia zia, possano avere nei loro cassetti o armadi. Fotografate le foto o duplicate i filmati che vi ritraggono, oltre le collezioni familiari (tutti noi abbiamo avuto delle istantanee che ritraggono il cugino del cuore o l'amico dell'amico). Perché la memoria è la cosa più importante che abbiamo, e non è giusto assegnargli questa importanza quando saremo diventati anziani. Perché vivere di ricordi può essere l'essenza più deteriore di chi indugia nel nostalgismo, ma la memoria ci aiuta a non dimenticare mai chi siamo stati e chi saremo. 
                                                                                                                                                                                                                                                                               

mercoledì 12 giugno 2019

Della politica e della responsabilità: chi pagherà il conto?

È un destino a dir poco beffardo quello che accompagna le forze politiche più responsabili di un Paese in gravi difficoltà sociali ed economiche come è l'Italia. Partiti chiamati a sostenere misure in favore del risanamento dei conti pubblici e di responsabilità politica in favore delle future generazioni che, però, pagano puntualmente conseguenze nefaste in termini elettorali. È di questo che vorrei parlare. Prima però devo mettere le mani avanti: capisco che è difficile, nell'era odierna, non venire fraintesi. Sospetto, anche, che almeno il 90% delle inevitabili obiezioni su quanto osserverò riguarderanno elementi che nulla (ripeto: nulla) avranno a che fare con la mia tesi. Sono già rassegnato in tal senso.

Considero indubitabile che tra i problemi che partiti come il PD (ma onestamente il ragionamento vale anche per Forza Italia) scontano, c'è sicuramente quello di essere stati più volte e a più riprese sostenitori di "governi del Presidente", ossia di quegli esecutivi organizzati dal Quirinale e che hanno avuto come unico sostanziale scopo quello di programmare e mettere in atto provvedimenti in favore del risanamento economico. Da Monti in giù (Ciampi, Dini, Amato) è stato necessario fare ricorso a personalità più o meno autorevoli e credibili a livello interno e internazionale per far recuperare al Paese punti di PIL e far calare lo spread, aggiustando quanto era stato distrutto. Per raggiungere questi obiettivi è stato necessario, più o meno giocoforza, come si dice oggi, mettere le mani nelle tasche degli italiani. E qui viene fuori la prima criticità di queste misure: sì, perché le "tasche" degli italiani violate purtroppo sono state (e sono ancora oggi) sempre le stesse. 

Taluni provvedimenti, come la stessa vituperata Legge Fornero, avevano come obiettivo quello di conseguire il risultato necessario (nella fattispecie: riformare il sistema pensionistico) nel minor tempo possibile. Ma le conseguenze sono state devastanti, anche in termini di tenuta di una generazione che è stata oggettivamente massacrata da un provvedimento che non si può non definire di macelleria sociale.

Il punto centrale oggi è se sia ancora immaginabile che l'indirizzo politico più responsabile di un Paese moderno e democratico come l'Italia debba essere garantito da personalità le quali, poi, non hanno alcuna necessità di far approvare o meno il proprio operato dal corpo elettorale. La risposta a questa domanda, ovviamente, è no. Eppure la realtà è diversa.

Se, infatti, i partiti che concorrono alla formazione del governo del Paese fossero dotati di superiore responsabilità, non ci sarebbe alcun bisogno di reclutare professori ed economisti che, però, appaiono bravi solo in quelle "lacrime e sangue" che, come ho già detto, vengono versate dai soliti noti. 

Questo ragionamento vale per tutti, anche se (lo riconosco) è inevitabile al momento attagliarlo alle scelte di un esecutivo, quello tuttora in carica, che non a caso sta faticando oltremisura in un negoziato in atto, quello con l'Unione Europea, che impone scelte che dovrebbero essere oculate e sostenibili. Richiesta che il Premier Giuseppe Conte vuole fare propria, ritenendo evidentemente che non si può pensare di continuare a rispondere con un'idea che personalmente considero strampalata del "sovranismo". 

Perché non c'è dubbio che l'introduzione dell'Euro non sia stata gestita in maniera rigorosa, e queste sono responsabilità purtroppo "spalmabili" tra diverse forze, di Centro, di Destra e di Sinistra. Con scelte "oculate e sostenibili" (quelle che ci chiede l'UE, pensa l'ennesima procedura d'infrazione) non si intendono certamente i provvedimenti che si basano sull'accrescimento di un deficit economico. Provvedimenti che non è nemmeno etico tentare di giustificare con quello che si sarebbe dovuto fare nel passato ma che non si è fatto. 

E alla fine, la prospettiva qual è? Quella dell'approdo di un Mario Draghi (che, sono certo, non accetterà mai di diventare il leader di Forza Italia) che, come Mario Monti, dovrà rimettere i conti in sesto. E come lo farà? Ma facile: facendo pagare chi ha già tanto pagato, lasciando poi indisturbati gli evasori fiscali, i doppiolavoristi (compresi i sempre più casi di percettori di reddito di cittadinanza che, mentre fanno la morale agli altri continuano a lavorare in nero) e gli speculatori. E a sostenere questo governo chi sarà? Ma naturalmente il PD, sicuramente Forza Italia, e qualche altro gruppuscolo di parlamentari di professione che da decenni bivaccano nel Transatlantico saltellando da un partito all'altro (la stessa impostazione che ci ha fatto ritrovare Pierferdinando Casini, che io non considero l'uomo nero) candidato nell'uninominale per il Partito Democratico.

No, non è una prospettiva che mi piace. Anche se Draghi è un orgoglio del Paese a livello mondiale, non è così che vorrei che funzionasse l'Italia. Vorrei al tempo stesso però che le scelte di politica economica non venissero fatte alla garibaldina, tra selfie e video su Facebook, ma che la "scienza" dei professoroni chiamati ad aggiustare il Paese (Monti e altri) venisse indirizzata verso progetti di sviluppo reale, attraverso una riduzione drastica del costo del lavoro (cosa di cui nessuno parla), un aumento degli investimenti in favore del nostro Paese, una superiore certezza del diritto e una lotta concreta al malaffare e alla mafia.

Ecco quali sono i problemi dell'Italia. Lo dico a chi pensa, grazie a certi attuali governanti, che, se non può permettersi una vacanza o, peggio, pagare la bolletta, la colpa sia dell'ennesimo barcone di disperati che naufraga nel Mediterraneo. Arriverà Draghi? La farà pagare ai soliti noti? Il PD lo sosterrà? Ma alle elezioni verrà punito. Perché non è la "responsabilità" che il cittadino medio cerca. 

Sergio Mattarella è entrato nel quinto anno del suo mandato presidenziale. Frustrazioni diffuse lo identificano come un avversario dell'attuale compagine di governo, e non come un sostenitore delle prerogative costituzionali. Visti gli attuali chiari di luna non mi stupirei se, tra due anni, al suo posto ci ritrovassimo Calderoli. Allora sì che sarà dura.

mercoledì 29 maggio 2019

PD e Movimento 5 Stelle devono dimenticare le scorie del passato e tornare a discutere. Altrimenti sono condannati all'irrilevanza

Aldilà del (significativo) boom leghista, le elezioni Europee di domenica scorsa hanno rivelato un quadro che, sul piano della proposta politica, relega la Sinistra ad un ruolo assolutamente marginale e di testimonianza. È di questo che voglio parlare. 
Non attribuisco certo al recupero di qualche punto percentuale del PD la rinascita di una prospettiva. Anzi, i dati rivelano con estrema nettezza che mentre la Destra dispone di una quantità innumerevole di soluzioni (Salvini con la forza di cui dispone può sparigliare le carte in qualsiasi momento e cambiare alleati), i DEM non hanno certamente nulla per cui esaltarsi. Anzi, ancora una volta il fronte progressista si ritrova a fare i conti con una realtà nella quale l'individualismo sfrenato (da SEL a LeU, fino a "La Sinistra" nella quale avrebbero dovuto identificarsi i sedicenti "puri di cuore") ha prodotto risultati a dir poco insignificanti
Se il "renzismo" non ha certamente agevolato il percorso volto a costruire un'area progressista forte e centrale nella vita di un Paese complesso come l'Italia (devo ancora capire bene i capi di imputazione a carico dell'ex premier) la decisione, assunta da chi è impegnato giornalmente nella corsa a dimostrare di essere più "di sinistra" degli altri, di andarsene dal PD, non mi pare che abbia creato condizioni per così dire "vincenti". Anzi, i cosiddetti "valori" di supremazia, in una rappresentanza che in cinque anni ha cambiato almeno dieci sigle, sono stati a dir poco azzerati. Ne consegue che o per la Sinistra non ci votano più nemmeno quelli "di sinistra", o quelli "di sinistra", pur di punire una politica più moderata continuano a spaccare il capello in quattro nel giochino della "Sinistra fai da te", non capendo che solo in un grande partito-contenitore le proprie istanze riescono ad avere diritto di cittadinanza. 
Che fare, dunque? Nicola Zingaretti e Carlo Calenda hanno indubbiamente fatto un buon lavoro. Agevolato (negarlo sarebbe disonesto) dalla rinuncia di Matteo Renzi all'ennesima scissione. Rinuncia, peraltro, scaturita dalla consapevolezza che si sarebbe trattato della sua ennesima inimmaginabile sciocchezza. 
Ma se è nei rapporti interpersonali che le "scorie" delle divergenze sopravvivono nei secoli, la stessa cosa non può accadere nella vita politica. Se vogliono tornare ad essere competitivi, PD e Movimento 5 Stelle dovrebbero cercare di riprendere una discussione che sia scevra da pregiudizi e condizionamenti di un passato nel quale se ne sono dette di tutti i colori. Una campagna denigratoria che, naturalmente, negli anni ha premiato i pentastellati, che ai DEM hanno attribuito perfino la responsabilità delle guerre puniche, pur sapendo (dunque in maniera intellettualmente disonesta) che la realtà era ben diversa. Ma oggi bisogna resettare tutto e cercare di creare condizioni nuove per la elaborazione di un progetto politico alternativo ad una Destra che raccoglie di tutto: l'insoddisfazione, il voto di protesta, la xenofobia. Mi fa sorridere pensare che un nuovo governo possa reggersi sulle gambe di cemento armato di Salvini e, contemporaneamente, su quelle ormai di argilla del Movimento 5 Stelle. Mi fa sorridere di più immaginare nuove elezioni e un'altra alleanza tra Salvini (sempre più forte) e Fratelli d'Italia della Meloni, che porterebbe "in dote" appena il 6-7% a fronte di uno strapotere leghista del 34%. 
Cosa immaginare per il futuro per il PD? Mi sembra un'altra condizione "stile PCI": un partito di massa, popolare, ma senza la speranza di diventare un partito di governo. E la stessa cosa rischia il M5S. A cui governare non ha fatto certamente bene in termini di consensi. Anche per scelte politiche inevitabilmente bocciate, compreso quel reddito di cittadinanza che da "vangelo" si è trasformato in "karma". Governare ha fatto benissimo a Matteo Salvini. Gli è bastato chiudere i porti, tornando a tirare fuori dagli italiani quell'anima nera che anche Mussolini aveva già scovato.

giovedì 9 maggio 2019

Un errore l'esclusione di Polacchi dal Salone del Libro. Condanniamolo se viola la legge, non solo se ha idee fasciste


Matteo Salvini ha definito "surreale" quello che, evidentemente, considera un infondato allarme Fascismo. Lo ha fatto commentando la notizia dell'editore Francesco Polacchi, ingombrante presenza al Salone Internazionale del Libro di Torino. Chiarisco perché non sono d'accordo con questa affermazione. 
A far aleggiare il Fascismo non sono gli antifascisti. Al contrario, a farlo sono coloro che ne rivendicano orgogliosamente il (presunto) valore. Di conseguenza, dal "derby" del 25 aprile al "surrealismo" anacronistico che dovrebbe tranquillizzarci, il ministro dell'Interno sbaglia bersaglio.
Ma ora dico la mia sull'espulsione dell'editore Polacchi. Mi considero un insospettabile rispetto a possibili simpatie nei confronti di Casa Pound. Ma considero ogni censura un errore gravissimo. L'editore Polacchi (Altaforte) che (non a caso) pubblica un libro proprio su Salvini, ha il diritto di professare le sue idee, anche se io non le condivido. Escluderlo è scorretto. Anche perché al di sopra di tutto c'è la supremazia della Legge. E non tanto quanto stabilito dall'articolo 12 della Costituzione, quello che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. Ci sono anche altre norme che, eventualmente, sono dei punti di riferimento nel caso in cui l'attività della casa editrice Altaforte, a partire dalla legge che sanziona ogni apologia di fascismo. Denunciamo Polacchi se viola le leggi. Escluderlo a priori per le sue idee non appartiene ad uno stato democratico. Altrimenti finisce che hanno ragione loro.

sabato 27 aprile 2019

E mentre Sciacca non sa fare altro che dividersi, le Terme continuano ad essere ancora chiuse

 È la mattina del 25 ottobre 2017. Sono appena trascorsi quattro mesi
dall’elezione di Francesca Valenti a primo cittadino di Sciacca. Il governo regionale guidato da Rosario Crocetta è agli sgoccioli della sua prima (e ultima) legislatura.

Al culmine di mille pressioni, il fiorentino Alessandro Baccei, “tutore” dei conti pubblici siciliani all’uopo nominato assessore regionale all’Economia dal governo di Roma, si presenta a Sciacca insieme con Gaetano Chiaro, dirigente generale del Dipartimento Finanze e Credito. È quest’ultimo a sottoscrivere con il neo sindaco una convenzione che prevede la cessione al comune di quasi tutto il patrimonio immobiliare delle Terme, in uno con l’impellenza di scrivere (e pubblicare) in tempi europei il bando per la scelta del partner privato per la possibile gestione dei beni. Prospettiva: una riapertura a brevissimo termine per sanare la clamorosa “sigillata” di due anni e mezzo prima decisa però (giova ricordarlo), guarda caso dallo stesso Baccei su istanza dell’allora capo di un altro dipartimento, quello delle Società Partecipate, Grazia Terranova.

Un’interruzione improvvisa e clamorosa dell’attività delle Terme, quella del 2015, che getterà la città in una depressione economica senza precedenti e nel pieno di un danno d’immagine da cui non si è ancora ripresa.

Si scoprirà quasi subito che quella convenzione, la stessa che una raggiante Francesca Valenti sottoscrive, è piena di falle e “trabocchetti” più o meno consapevoli che la Regione tenta di infliggere alla città di Sciacca: è un documento frettoloso, scritto male, interpretato peggio, carico di insidie e responsabilità guarda caso tutte a carico del comune. Una convenzione concretamente inapplicabile, dunque. Tanto è vero che pone questioni tuttora irrisolte, compreso il mancato accatastamento di taluni beni, comprese (udite udite) perfino le stesse stufe di San Calogero. Ma come: le Terme senza le stufe?
Il sospetto prevalente è che quella convenzione sia solo una sorta di “polpetta avvelenata” organizzata, a pochi giorni dalle elezioni regionali, nel tentativo politico elettorale di salvare il salvabile. E, infatti, il governo Musumeci (che vince le elezioni) azzera tutto. Il successore di Baccei è il professor Gaetano Armao. Avoca a sé la questione, strappa in mille pezzi la convenzione del 24 ottobre 2017, annuncia un nuovo percorso che, sempre attraverso un ruolo significativo del comune, sia più ragionato. O “intelligente”, per usare il suo aggettivo. “Bisogna fare le cose in maniera intelligente”, ha detto infatti più volte Armao.

E noi (figuriamoci) siamo d’accordo con l’assessore Armao. A Sciacca così le cose vogliamo farle: intelligenti. Ci piacerebbe farle perfino “illuminate”, ci accontenteremmo che venissero fatte appena un po’ “sensate”. Il punto, diciamocelo con tutta la franchezza, è che sulle Terme di Sciacca l’attuale governo della Regione ha deciso di far calare il sipario. L’ennesima presa in giro, insomma. Lo dimostra il fatto stesso che dopo la demolizione del programma Baccei, e del tentativo probabilmente “sensocolpista” dell’ex assessore di riparare al gravissimo errore di chiudere le Terme piuttosto che tentare di rilanciarle mantenendole in vita, della sedicente prospettiva “intelligente” preannunciata da Armao (intento confermato pubblicamente a Sciacca durante “Vesper al Cinema” dal capo della sua segreteria Rino Piscitello) non si riesce ad intravedere ancora nemmeno l’ombra. Il tutto con, sullo sfondo, l'equivoco (perché non di altro a questo punto può trattarsi) della consistenza dei beni assegnata al comune su un patrimonio che del comune non è.

Il governo Musumeci (non certo solo sulle Terme) di fatto non fa altro che rimbrottare chi, a dire dei suoi stessi protagonisti, non avrebbe fatto le cose “a dovere” o in maniera da considerarsi “intelligente”. Basti pensare che, per dirne un’altra, ad opinione del Governatore il problema delle esondazioni del Cansalamone verrà risolto attraverso la demolizione delle case costruite lungo quelli che un tempo erano gli argini (malgrado queste non siano abusive, e vorremmo vedere quale tribunale non accoglierebbe gli inevitabili ricorsi).
Il punto vero di tutto, secondo il nostro modesto osservatorio, è che la povertà culturale civica nella quale negli anni è precipitata questa città, induce ormai a considerare che la “lancia in resta” di Agatocle (il condottiero raffigurato nel simbolo municipale di Sciacca) in realtà è rivolta contro se stesso.

È un autolesionismo, quello saccense, nel quale (infatti) sguazzano individualismi e giochini di palazzo, e nel quale l’impostazione privilegiata è quella della gestione fine a se stessa del potere, sulla falsariga del vecchio (odioso) adagio: “levati tu (dalla poltrona, s'intende) che mi ci metto io”.
E così: la conclusione di tutto è che nella piccola contrapposizione giornaliera, Sciacca non fa altro che agitarsi in gabbia, debilitando oltremisura la propria coscienza civile, immolando se stessa sull’altare della schiavitù dalla maldicenza reciproca. Col risultato che mentre il nostro cortile litiga, la città sprofonda. O, tanto per citare Tito Livio, mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata. Ecco perché oggi l’unico sussulto d’orgoglio possibile è quello che può spingere al più presto verso l'organizzazione di un presidio civico di protesta davanti la presidenza della Regione siciliana. Perché nell’era dell’immagine nella quale viviamo sono i simboli quelli che contano.
E allora, forse, l’operazione Baccei forse non sarà stata la strada giusta; il vuoto assoluto nel quale le Terme stanno navigando, però, non si è rivelata certamente una strada migliore di quella a suo tempo bocciata.

giovedì 18 aprile 2019

Differenze tra politici e statisti: oggi più attuale che mai il pensiero di James Freeman Clarke

I rapporti politici tra gli azionisti di maggioranza del governo Conte (Lega e Movimento 5 Stelle) sono ormai talmente compromessi che continuare a considerarle schermaglie da campagna elettorale per le Europee (per quell'Europa che non piace né a Di Maio, né tanto meno a Salvini) a questo punto è ridicolo. 
Dai porti chiusi ai migranti (occasionalmente anziché no) al caso Siri, dal fuoco di fila leghista contro Virginia Raggi ad una nuova "questione morale" (a corrente alternata), a questo punto l'idea che Giuseppe Conte possa riuscire a tenere ordinate le fila di un esecutivo in chiara difficoltà appare nebbiosa. 
Nel mezzo le questioni economiche, dove c'è un ministro dell'Economia che viene continuamente screditato, sbeffeggiato e delegittimato. Qual è il senso di tutto questo se non l'idea che l'Italia è al momento una specie di aereo più pazzo del mondo? Ho idee politiche diverse da quelle espresse da queste forze politiche. Non c'è dubbio, tuttavia, che il M5S abbia cercato, recentemente, di recuperare un'impostazione più solidaristica, tornando in qualche maniera a strizzare l'occhio a quella parte di popolo progressista che dopo aver premiato Luigi Di Maio si è poi visto sbattere in faccia il celebre (e, dicono, inevitabile contratto di governo). 
Il punto è che tra le enunciazioni di principio e la realtà ci sono di mezzo le poltrone (non è una considerazione etica) e soprattutto le elezioni. E, più che mai, nell'attuale scenario torna utile ricordare il celebre aforisma di James Freeman Clarke: "un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo paese". Al momento l'obiettivo di chi governa il Paese sembra quello di incassare i voti dei cittadini. Se, poi, come rivela Tria tra poco non rimarranno che le briciole, questo sembra non interessare più di tanto né Di Maio, né tanto meno Salvini.

domenica 31 marzo 2019

Credere ancora nell'Europa e in un nuovo Umanesimo? Non mi rassegnerò mai all'idea che sia impossibile

Il tradizionale editoriale della Domenica di Eugenio Scalfari (sempre lucidissimo dall'alto dei suoi quasi 95 anni), è portatore di una riflessione che trovo assolutamente condivisibile. Fa notare, il fondatore di Repubblica, che se l'Europa fosse davvero unita, sarebbe la più grande forza economica e politica del mondo. 
Scrive, in particolare, Scalfari, che "(...) ormai siamo una sorta di Babele con obiettivi contrastanti all'interno di una confederazione slabbrata nonostante la presenza di personalità di notevole intelligenza e prestigio (...) che non riescono a coalizzare un'opinione europeista che unifichi il continente e lo trasformi anch'esso in una potenza globale (...). È molto strana questa situazione, e bisognerebbe trovare il modo di impedirla e traghettare l'Europa nel mondo moderno. Chi combatterà per questo obietti­vo? (...) L'Europa avrebbe bisogno di un popolo che comprenda la situazione e la chieda a tutta voce. Purtroppo allo stato dei fatti questo popolo non c'è, ma se (...) l'Inghilterra e gli inglesi decidessero di rientrare in Europa, questo sì, sarebbe un segnale che potrebbe stimolare uno spiri­to del tutto nuovo, riportando il nostro continente al centro del mondo".
Considero le predette riflessioni indicative di una rotta che personalmente non intendo rassegnarmi a perdere. Non accetto la sconfitta del ragionamento sull'altare di una cultura egoistica che punta ad escludere. La prospettiva deve essere di civiltà, nell'ambito di un nuovo Umanesimo che non è un traguardo impossibile. L'analisi culturale, in un mondo globalizzato, hanno ancora il diritto di esistere. Siamo reduci da una storia che, per dire, ha lasciato ancora scorie non del tutto smaltite. Penso al Fascismo, ma non solo a quello.



mercoledì 20 marzo 2019

Salvatore Monte: "Si lavori per far tornare il Museo del Mare a Muciare".

Ricevo e pubblico questo interessante contributo dell'amico Salvatore Monte, ex assessore del comune di Sciacca.
 
La nostra città, negli anni, ha sempre cercato di costruirsi un’immagine. Terme, Ceramica, Corallo, Carnevale, Pesca ed ovviamente Mare. Peculiarità affascinanti che, diciamolo, farebbero gola a chiunque. Un insieme di tesori che, se ben sfruttati, darebbero linfa vitale all'intero indotto economico della nostra città. La recente notizia della chiusura del Museo del Mare rappresenta, senza ombra di dubbio, un momento importante che ci deve indurre ad una riflessione che tutti noi dobbiamo portare avanti, a prescindere dai pensieri di natura politica o personalistica. Ricordo bene quando, in prima persona mi recai, dall’allora dirigente scolastico del Primo Circolo di Sciacca, a chiedere la possibilità di usufruire momentaneamente di alcune sale per ospitare i reperti del Museo del Mare di Contrada Muciare, a seguito della terribile alluvione che colpi la nostra città. I locali che insistono su via Giuseppe Licata sono, da sempre in verità, stati utilizzati dal Comune per l’allestimento di diverse mostre (già dai tempi del Sindaco Cucchiara, autore della riapertura di quell’ala del complesso Fazello). Prima di concludere il mio mandato lasciai dunque due generi di allestimento: a) uno relativo appunto ai reperti del museo mare e b) uno relativo all’esposizione di una mostra di corallo e ceramica, frutto di un finanziamento europeo ottenuto dall’Amministrazione Di Paola. Solo qualche settimana dopo le elezioni amministrative seppi che i manufatti in corallo ed in ceramica tornarono ai legittimi proprietari per dare vita ad un unico Museo, quello del Mare appunto. Una nuova visione dunque, non più con in prima linea, probabilmente, la Lega navale sezione di Sciacca, con la quale il comune aveva firmato un protocollo di intesa, ma con la nuova associazione “Amici di Vincenzo Tusa” che, armata di buona volontà, ha cercato di valorizzare il sito del Fazello, seppur alcuni di quei locali vennero affidati in maniera del tutto temporanea. Volendo sorvolare sull’aspetto prettamente tecnico legato all’esigenza di recuperare documentazioni tecniche, aggiornate alle normative vigenti ed utili alla riapertura del sito, credo sia arrivato il momento però di “mettere a sistema” quello che, in parte, nel 2016 si era già fatto. Si lavori con entusiasmo per ridare luce al Museo del Mare di Contrada Muciare, luogo oggetto di finanziamenti pubblici che non può restare in quelle condizioni. Si lavori per l’apertura definitiva della strada di collegamento tra il viale delle terme e la contrada Muciare. Ma non dimentichiamoci, ad esempio, della piccola mostra permanente nei locali della sede dei ceramisti in piazza Scandaliato, chiusa da tempo per mancanza di personale. Non dimentichiamoci del Museo del Carnevale che necessita di urgenti lavori di manutenzione per salvaguardare le apparecchiature dalle infiltrazioni d’acqua. Ed ancora, si torni a parlare di “messa in rete” delle chiese saccensi in sinergia con la Curia Arcivescoviile. Si torni a dialogare con il Consorzio Corallo e si trovino spazi idonei per mettere in mostra l’antica arte dei maestri corallari. Infine, si “approfitti affettuosamente”, del neo sovrintendente ai beni culturali di Agrigento, Michele Benfari, un uomo carico di entusiasmo ed al posto giusto, per dare una carica al settore artistico/monumentale alla nostra città. Dovremmo capire che basterebbe accendere un riflettore sulle nostre singole realtà per riaccendere il turismo, l’economia e la speranza di continuare a credere in questa città. Occorre guardare avanti per salvare la nostra identità e per tornare a dare fiducia a chi in questa nostra città vuol crescere e vivere. La nostra città, negli anni, ha sempre cercato di costruirsi un’immagine. Terme, Ceramica, Corallo, Carnevale, Pesca ed ovviamente Mare. Peculiarità affascinanti che, diciamolo, farebbero gola a chiunque. Un insieme di tesori che, se ben sfruttati, darebbero linfa vitale all'intero indotto economico della nostra città. La recente notizia della chiusura del Museo del Mare rappresenta, senza ombra di dubbio, un momento importante che ci deve indurre ad una riflessione che tutti noi dobbiamo portare avanti, a prescindere dai pensieri di natura politica o personalistica. Ricordo bene quando, in prima persona mi recai, dall’allora dirigente scolastico del Primo Circolo di Sciacca, a chiedere la possibilità di usufruire momentaneamente di alcune sale per ospitare i reperti del Museo del Mare di Contrada Muciare, a seguito della terribile alluvione che colpi la nostra città. I locali che insistono su via Giuseppe Licata sono, da sempre in verità, stati utilizzati dal Comune per l’allestimento di diverse mostre (già dai tempi del Sindaco Cucchiara, autore della riapertura di quell’ala del complesso Fazello). Prima di concludere il mio mandato lasciai dunque due generi di allestimento: a) uno relativo appunto ai reperti del museo mare e b) uno relativo all’esposizione di una mostra di corallo e ceramica, frutto di un finanziamento europeo ottenuto dall’Amministrazione Di Paola. Solo qualche settimana dopo le elezioni amministrative seppi che i manufatti in corallo ed in ceramica tornarono ai legittimi proprietari per dare vita ad un unico Museo, quello del Mare appunto. Una nuova visione dunque, non più con in prima linea, probabilmente, la Lega navale sezione di Sciacca, con la quale il comune aveva firmato un protocollo di intesa, ma con la nuova associazione “Amici di Vincenzo Tusa” che, armata di buona volontà, ha cercato di valorizzare il sito del Fazello, seppur alcuni di quei locali vennero affidati in maniera del tutto temporanea. Volendo sorvolare sull’aspetto prettamente tecnico legato all’esigenza di recuperare documentazioni tecniche, aggiornate alle normative vigenti ed utili alla riapertura del sito, credo sia arrivato il momento però di “mettere a sistema” quello che, in parte, nel 2016 si era già fatto. Si lavori con entusiasmo per ridare luce al Museo del Mare di Contrada Muciare, luogo oggetto di finanziamenti pubblici che non può restare in quelle condizioni. Si lavori per l’apertura definitiva della strada di collegamento tra il viale delle terme e la contrada Muciare. Ma non dimentichiamoci, ad esempio, della piccola mostra permanente nei locali della sede dei ceramisti in piazza Scandaliato, chiusa da tempo per mancanza di personale. Non dimentichiamoci del Museo del Carnevale che necessita di urgenti lavori di manutenzione per salvaguardare le apparecchiature dalle infiltrazioni d’acqua. Ed ancora, si torni a parlare di “messa in rete” delle chiese saccensi in sinergia con la Curia Arcivescoviile. Si torni a dialogare con il Consorzio Corallo e si trovino spazi idonei per mettere in mostra l’antica arte dei maestri corallari. Infine, si “approfitti affettuosamente”, del neo sovrintendente ai beni culturali di Agrigento, Michele Benfari, un uomo carico di entusiasmo ed al posto giusto, per dare una carica al settore artistico/monumentale alla nostra città. Dovremmo capire che basterebbe accendere un riflettore sulle nostre singole realtà per riaccendere il turismo, l’economia e la speranza di continuare a credere in questa città. Occorre guardare avanti per salvare la nostra identità e per tornare a dare fiducia a chi in questa nostra città vuol crescere e vivere. La nostra città, negli anni, ha sempre cercato di costruirsi un’immagine. Terme, Ceramica, Corallo, Carnevale, Pesca ed ovviamente Mare. Peculiarità affascinanti che, diciamolo, farebbero gola a chiunque. Un insieme di tesori che, se ben sfruttati, darebbero linfa vitale all'intero indotto economico della nostra città. La recente notizia della chiusura del Museo del Mare rappresenta, senza ombra di dubbio, un momento importante che ci deve indurre ad una riflessione che tutti noi dobbiamo portare avanti, a prescindere dai pensieri di natura politica o personalistica. Ricordo bene quando, in prima persona mi recai, dall’allora dirigente scolastico del Primo Circolo di Sciacca, a chiedere la possibilità di usufruire momentaneamente di alcune sale per ospitare i reperti del Museo del Mare di Contrada Muciare, a seguito della terribile alluvione che colpi la nostra città. I locali che insistono su via Giuseppe Licata sono, da sempre in verità, stati utilizzati dal Comune per l’allestimento di diverse mostre (già dai tempi del Sindaco Cucchiara, autore della riapertura di quell’ala del complesso Fazello). Prima di concludere il mio mandato lasciai dunque due generi di allestimento: a) uno relativo appunto ai reperti del museo mare e b) uno relativo all’esposizione di una mostra di corallo e ceramica, frutto di un finanziamento europeo ottenuto dall’Amministrazione Di Paola. Solo qualche settimana dopo le elezioni amministrative seppi che i manufatti in corallo ed in ceramica tornarono ai legittimi proprietari per dare vita ad un unico Museo, quello del Mare appunto. Una nuova visione dunque, non più con in prima linea, probabilmente, la Lega navale sezione di Sciacca, con la quale il comune aveva firmato un protocollo di intesa, ma con la nuova associazione “Amici di Vincenzo Tusa” che, armata di buona volontà, ha cercato di valorizzare il sito del Fazello, seppur alcuni di quei locali vennero affidati in maniera del tutto temporanea. Volendo sorvolare sull’aspetto prettamente tecnico legato all’esigenza di recuperare documentazioni tecniche, aggiornate alle normative vigenti ed utili alla riapertura del sito, credo sia arrivato il momento però di “mettere a sistema” quello che, in parte, nel 2016 si era già fatto. Si lavori con entusiasmo per ridare luce al Museo del Mare di Contrada Muciare, luogo oggetto di finanziamenti pubblici che non può restare in quelle condizioni. Si lavori per l’apertura definitiva della strada di collegamento tra il viale delle terme e la contrada Muciare. Ma non dimentichiamoci, ad esempio, della piccola mostra permanente nei locali della sede dei ceramisti in piazza Scandaliato, chiusa da tempo per mancanza di personale. Non dimentichiamoci del Museo del Carnevale che necessita di urgenti lavori di manutenzione per salvaguardare le apparecchiature dalle infiltrazioni d’acqua. Ed ancora, si torni a parlare di “messa in rete” delle chiese saccensi in sinergia con la Curia Arcivescoviile. Si torni a dialogare con il Consorzio Corallo e si trovino spazi idonei per mettere in mostra l’antica arte dei maestri corallari. Infine, si “approfitti affettuosamente”, del neo sovrintendente ai beni culturali di Agrigento, Michele Benfari, un uomo carico di entusiasmo ed al posto giusto, per dare una carica al settore artistico/monumentale della nostra città. Dovremmo capire che basterebbe accendere un riflettore sulle nostre singole realtà per riaccendere il turismo, l’economia e la speranza di continuare a credere in questa città. Occorre guardare avanti per salvare la nostra identità e per tornare a dare fiducia a chi in questa nostra città vuol crescere e vivere. 
Salvatore Monte

sabato 23 febbraio 2019

Esegesi della "cheppa": non un indumento, ma una filosofia di vita

Fatemi giocare un po'. Lo faccio attraverso una (tentata) esegesi della cheppa. Ma sì, il celeberrimo scialle di lana trapuntata, di quelli che le nostre nonne un tempo sferruzzavano e poi indossavano e ostentavano come sorta di scettro matriarcale, paramento laico che identificava la custode del potere temporale di chi, proprio con la cheppa sulle spalle, governava l'economia domestica e, in qualche caso, fingeva che la decisione finale su tutte le scelte più importanti spettasse al marito. 
Era anche il tempo, però, nel quale già a quarant'anni la donna era considerata vecchia, senza istinti né voglie. Donna che talvolta esiliava se stessa immolandosi nell'iconografia sacrale del fazzoletto sulla testa, a simboleggiare il superamento periodico di tutti i confini: da figlia a moglie, da mamma a nonna. 
Donne che, eppure, spesso erano assai più attraenti e sexy dei simboli dell'emancipazione, quelli rappresentanti dalle protagoniste dell'arte, della moda, del cinema, della canzone, ma anche della borghesia e della nobiltà. Se ne accorgevano quei potenti che esercitando il proprio potere nel modo più spregiudicato, possedevano e ingravidavano le proprie donne di servizio. Vigliacchi che dopo averle compromesse raramente facevano il loro dovere riconoscendone i figli. 
Le altre se potevano facevano ricorso alla cheppa utilizzandola anche come una sorta di scudo delle proprie virtù, in grado di respingere ogni insidia che la sola parvenza dello sguardo di un uomo potesse generare. Eppure sotto la cheppa si nascondeva di tutto: la femminilità sopita, l'erotismo soffocato, lo scalpiccio domato dell'istinto sessuale.
Sì, siamo tutti affezionati all'immagine più ospedaliera che casalinga di questo accessorio che nella nostra cultura non è stato solo un indumento. No, la cheppa è ancora oggi una filosofia di vita, accettata in qualche caso come il più ineluttabile dei destini, in un'osmosi irripetibile tra società e umanità, con l'obiettivo di tentare di asfissiare sul nascere ogni progetto che rappresentasse l'ipotesi di una vita diversa. Ma già la stessa idea di diversità era sconosciuta al culto di una società repressa e fondamentalista. 

domenica 17 febbraio 2019

In una comunità di dissociati come la nostra a morire è stata la cultura, non le ideologie

Ieri, durante la presentazione del libro "Giostre" di Cetta Brancato, la professoressa Angioletta Scandaliato ha stimolato in me una riflessione. È successo nel momento in cui, all'interno di un'analisi culturale molto articolata (da cui, lo ammetto, non è del tutto legittimo decontestualizzare solo una frase), ha affermato che viviamo in un'epoca nella quale "le ideologie politiche sono morte". Mi permetto di dire la mia.
È un mondo, quello in cui viviamo, che sa solo accapigliarsi. Una comunità alimentata dalla deriva peggiore del fenomeno social nella quale, come novelli agguerritissimi guelfi e ghibellini, fazioni contrapposte si riproducono come conigli, sublimando la polemica, schizzandola di quel sangue virtuale rivelatore di una rabbia che, rispetto alle reazioni fisiche, fortunatamente, si riesce ancora a soffocare. Lo scontro sembra venire perseguito come obiettivo, e non considerato come variabile marginale.
Il paradigma marxista del "conflitto di classe" si è sicuramente evoluto. D'altra parte le "classi" per come si intendevano un tempo non ci sono più. Così come non c'è più neanche quel "Paradiso" che, nell'apoteosi della concezione utopistica del futuro, avrebbe dovuto spalancare le porte agli operai, simbolo dell'affrancamento di quel proletariato sfruttato dal padrone. 
Le classi sociali in realtà oggi sono solo caratterizzate da autentiche, stazioni dove le sale "arrivi" e "partenze" sono sempre affollatissime, e dove il ricambio è veloce come se all'ingresso e all'uscita ci fosse una grande porta girevole. 
È indubbio come oggi sia diventato oltremodo complicato, soprattutto per i partiti politici, riuscire ad avere una platea di riferimento con la quale interloquire. A rivelarlo furono già dalla fine degli anni Ottanta il disorientamento degli stessi lavoratori, molti dei quali non esitarono, qualche tempo dopo, ad affidare il loro destino perfino a Berlusconi. 
Un fenomeno che iniziò ad inquinare gli schemi della politica per come li avevamo conosciuti. Un processo forse fisiologico, ma che non può consentire di mettere da parte impostazioni culturali, basi storiche, analisi critiche e fatti incontrovertibili.
La mia conclusione è che no, le ideologie non sono affatto morte. Ad essere in coma, piuttosto, è la cultura. Non si sente più il bisogno di capire, discernere, esaminare le singole proposte. Schematizzando: ci sono comunisti che hanno nostalgia del PCI ma che, eppure, in attesa del ritorno a quella politica che a loro manca tanto, nel frattempo premiano la Lega di Salvini. Messa così le ideologie sono morte, eccome se lo sono. Ma analizzando i fatti oggi a prevalere è la reazione della pancia, il virgulto delle emozioni e della rabbia. Quanto durerà? Non lo so. Le ideologie sopravvivono ancora in chi, pur non disdegnando certo critiche legittime ai partiti tradizionali, non si precipita certo a premiare impostazioni politiche e culturali che vanno in una direzione totalmente opposta rispetto ai propri convincimenti. Ma in una comunità di dissociati, come è diventata la nostra oggi, succede e succederà ancora. La cultura salverà il mondo. Ma al momento è in rianimazione.

martedì 12 febbraio 2019

Credenze e ignoranza emarginarono Mia Martini: artista uccisa dalla superstizione

La parabola umana di Mia Martini è, ahimè, simbolica di quella porzione di degrado morale causato dalla superstizione e dalla cattiveria. Degrado da cui scaturisce anche la violenza, forse non fisica, ma non per questo meno rilevante. Un'artista facilmente emarginata dallo showbiz a seguito di assurde dicerie sul suo conto. "Porta sfortuna". Chissà chi fu il primo "genio" a sostenerlo. Sta di fatto che da quel momento in poi iniziò la discesa verso l'inferno. Il Sanremo 1989 fu lo spartiacque della sua vita. Con "Almeno tu nell'universo" ricordò a tutti il suo straordinario talento. Ma il danno d'immagine subito era stato devastante. Morirà nel 1995. 
La Rai le rende omaggio con una fiction. È un tributo postumo, tardivo quanto si voglia, ma le è dovuto. Ma, come si può capire, dall'inquisizione in poi, le conseguenze di credenze assurde, quelle di chi ancora oggi crede al malocchio, hanno rovinato la vita di questa donna. Una credenza si diffonde in maniera capziosa e pericolosa. Eppure, pur sapendo che la superstizione è un'azione in contrasto con la scienza, perfino le menti più razionali cadono nel tranello, lasciandosi andare a scongiuri e alla scuola di pensiero introdotta da Peppino De Filippo: "Non è vero ma ci credo". Nella vita di tutti i giorni una maldicenza del genere è pericolosa. Nel mondo dello spettacolo può essere la fine. 

domenica 10 febbraio 2019

La frustrazione autoassolutoria di chi brandisce le foibe solo come contraltare ideologico


Solo in un Paese culturalmente malato e politicamente rancoroso una tragedia di straordinaria crudeltà come quella delle foibe può essere brandita come un'arma ideologica e strumentalizzata come bizzarro (sedicente) contraltare della storia. Eppure accade anche questo. Perfino questo, oserei azzardare.
La "sfida" è chiara: se i nazifascisti furono assassini, allora i comunisti non furono da meno. Una specie di "lezione della storia" che dimostra, quantomeno una verità imbarazzante, agitata come un vessillo politico al solo scopo di riscattare (si fa per dire) la marginalizzazione politica della Destra più becera, picchiatrice e violenta che durante il Ventennio, al soldo dell'asse Roma-Berlino, aveva manganellato, somministrato olio di ricino, ucciso e lasciato uccidere. Un tentativo, dunque, di contestare, contrapponendo una tragedia ad un'altra tragedia (la lotta partigiana contro la dittatura fascista e i suoi derivati) la presunta sedicente superiorità morale della Sinistra.
Si alza così l'asticella, con l'obiettivo finale di equiparare, se non nelle finalità nei metodi della lotta, partigiani e fascisti.
"Se voi sonerete le vostre trombe, noi soneremo le nostre campane!", dice Pier Capponi a Carlo VIII. Ma il tentativo di volere dimostrare che fascisti e partigiani "pari sono" che personalmente trovo ridicolo.
Al culmine di una guerra civile non esistono azioni giuste o sbagliate. Violenza chiama violenza, assassinio chiama assassinio, crudeltà chiama crudeltà. Da antifascista, per esempio, io trovo a dir poco vergognosa la pagina di Piazzale Loreto, anche se non è mai corretto decontestualizzare un singolo episodio dalla storia più ampia.
La sensazione finale è che agli "anticomunisti" le vittime delle foibe interessino solo fino ad un certo punto, e che la loro necessità vera sia quella di disporre di un appiglio per fronteggiare la frustrazione di chi non ha mai accettato l'esito della storia fascista.
E allora io rispetto le vittime delle foibe. Furono vittime innocenti di una criminale pulizia etnica avallata dal regime di Tito. Così come rispetto, però, le vittime della repressione di una dittatura fascista sanguinaria e assassina, i cui protagonisti non meritano alcun rispetto, né quello umano, né tanto meno quello politico. Nessuno mi toglie dalla testa che, più o meno intimamente, chi insegue di continuo la necessità di ricordare al mondo che i 6 milioni di morti della Shoah sono ben pochi rispetto ai 20 milioni uccisi da Stalin, non abbia alcun interesse nei confronti di un aspetto umanista, ma solo un'esigenza autoassolutoria rispetto a quella che considera la menata del fascismo che tolse i diritti e uccise i dissidenti (a partire da Giacomo Matteotti) ma che, al tempo stesso, fece anche cose buone (sic!), dall'architettura ai treni che arrivavano in orario
.

mercoledì 6 febbraio 2019

Ridurre il numero dei parlamentari? Condivido, ma se lo fu quella di Renzi anche questa è solo propaganda

Inizia domani, al Senato, la discussione sulla proposta di "taglio" di 345 parlamentari. La proposta è di Movimento 5 stelle e Lega. Non è un percorso agevole ma, personalmente, è un tentativo che condivido. Non posso non evidenziare, infatti, che secondo me i parlamentari in Italia sono troppi. E, inoltre, soprattutto con le recenti leggi elettorali, oggi tutto rappresentano fuorché il territorio. 

Ma per ridurre questo numero di parlamentari occorrerà una riforma costituzionale e, eventualmente, un referendum confermativo. Storia già vista. Di conseguenza, almeno al momento, tutto è solo fuffa. Tanto più che quando c'è stata la possibilità di abolire il Senato la netta maggioranza degli italiani ha votato No solo ed esclusivamente (come tutti sanno) per fare un dispetto a Matteo Renzi. 

Che, certo, se fosse stato più accorto e meno egocentrico non avrebbe personalizzato quella che sarebbe stata una riforma istituzionale di tutti, e non una vittoria politica personale. Eppure, a pensarci, oggi avremmo 315 parlamentari in meno e, soprattutto, non avremmo più il "bicameralismo perfetto" e la "navetta" tra Camera-Senato. Ma questa è un'altra storia. Quella attuale che la propaganda fa male alla salute. E al fegato.

giovedì 24 gennaio 2019

Terme: muoviamoci, altrimenti nella dicotomia tra colpevolisti e innocentisti sarà il nostro specchio a rivelarci la verità

Ieri a Vesper al Cinema abbiamo parlato delle Terme di Sciacca, di quello che significano sul piano simbolico, di come sono state bistrattate su quello economico, sfruttate su quello politico, consumate su quello pratico.
Vent'anni dopo la legge che sancì la necessità di privatizzarle, siamo ancora qui a parlare di errori del passato e prospettive per il futuro. E ancora: gestione, affidamento, riconversione, rilancio, danni. 
La Regione, proprietaria delle Terme, le ha utilizzate per finalità essenzialmente politico-clientelari. Anche istituendo una Spa presto avviata alla liquidazione (tuttora in corso) che ha costretto il governo a ricomprare beni che erano suoi pur di poter riunificare i beni da mettere a bando. 
Politica che se l'è scialata, dunque. Fino a quando, però, le vacche sono diventate talmente magre che la stessa politica alla fine è stata indotta a "toglierci mano" chiudendole. Ripartendo daccapo. Perché nel frattempo il precedente governo (meno male che era di centrosinistra) ha tentato piuttosto goffamente di consegnare il patrimonio al comune, attribuendogli però compiti sovradimensionati, permettendoci di scoprire che alcuni degli immobili (perfino le stufe vaporose) non erano nemmeno accatastati.
Oggi è giunto il momento di una spinta civica, quella che è mancata da parte di una città che da sempre, come dimostra d'altronde lo stesso avvento dei social, preferisce giudicare più che agire. 
Ora basta. Occorre agire, riconquistare il nostro
orgoglio. Altrimenti è perfettamente inutile continuare a cercare un altro colpevole: sarà sufficiente guardarci allo specchio.

lunedì 21 gennaio 2019

Il film su "Van Gogh" come apoteosi dell'instabilità della mente e della narrazione

C'è la perfetta rappresentazione dell'apoteosi dell'instabilità nello splendido film di Julian Schnabel "Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità" con, protagonista, uno straordinario Willem Dafoe nei panni del grande pittore olandese. 
L'instabilità della mente di Van Gogh fa il paio con quella della narrazione per immagini a cui fa ricorso il regista, che indugia in un uso movimentato, quasi parossistico della macchina da presa, quasi obbligando lo spettatore a guardare ai fatti con gli occhi del protagonista.
Un lungometraggio che spiega l'arte inarrivabile del pittore attraverso il suo vissuto, le sue esperienze personali, i suoi rapporti con gli altri. Come a dire che l'uomo è ciò che lascia ai posteri: la sua visione del mondo, una sorta di filosofia immaginifica. 
In proiezione alla Multisala Badia Grande stasera e domani alle 20,15.

domenica 13 gennaio 2019

Incontro i giovani perché anche io alla loro età avrei voluto qualcuno che lo facesse

Sono reduce da una serie di incontri pubblici che mi hanno visto coprotagonista di alcuni incontri con i giovani, perlopiù studenti. Con loro ho parlato di temi culturali e di quelli riguardanti il rispetto delle regole nel lavoro del giornalista. Ho dovuto togliere del tempo ai miei numerosi impegni personali e professionali per potere rispettare questi appuntamenti. Ma l'ho fatto con grande trasporto emotivo, dando la precedenza ai giovani, considerandolo un dovere morale oltre che civico. "Ai giovani non posso dire di no", mi sono ripetuto. 
Lo racconto perché i ragazzi sono lo specchio migliore del mondo di oggi. E anche io alla loro età avrei voluto avere un'opportunità di questo genere: confrontarmi con il mondo adulto, quello delle professioni e dell'esperienza, con particolare predilezione per la conoscenza. Un "vizio" che non mi sono mai tolto, e che ancora oggi mi vede organizzare iniziative in favore della conoscenza e dell'analisi dei fatti culturali attraverso presentazioni di libri e trasmissioni televisive, come quelle che da questa stagione ho portato al cinema, con un esperimento che mi sta dando moltissime soddisfazioni e che continuerà.  

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...