martedì 30 dicembre 2014

Dell'infanzia non rimpiango né l'età né la spensieratezza. Ho deciso che recupererò disincanto e ottimismo. Buon anno a tutti


Da piccolo pensavo che il 1999 sarebbe stato come quello dei telefilm: la vita organizzata su un'astronave Alpha. E poi lo spazio, le navicelle, magari la compagnia di una qualunque Maya mutaforma in grado di prendere le sembianze di qualsiasi animale. Poi il 1999 arrivò davvero. Ma il massimo di avveniristico che riuscì a produrre fu la psicosi da "Millennium bug". In quel caso, ammettiamolo, la realtà non riuscì a superare la fantasia.
Quando durante il secolo scorso si pensava all'arrivo del famigerato anno Duemila la letteratura e la cinematografia ricorrevano sempre ai razzi spaziali, alle guerre stellari, agli alieni che si sarebbero impadroniti della Terra oppure, tra le ipotesi più terrene, alla drammatica possibilità di nuove guerre nucleari, tra funghi atomici e "Days after".
Nessuno, al mio ricordo, almeno, immaginava che sarebbe stato possibile veicolare una notizia alla velocità della luce o conversare con un amico più o meno virtuale in un modo diverso dall'uso del telefono. Così come nessuno pensava che potessero ancora resistere malattie come il cancro, malgrado i passi avanti straordinari compiuti sul fronte della ricerca medico scientifica.
Da piccolo pensavo che gli anni Duemila avrebbero garantito un mondo più evoluto, meglio organizzato soprattutto in termini di distribuzione della ricchezza. E invece siamo di fronte ad una realtà assolutamente frammentaria, squilibrata. Una realtà nella quale, a parte la crisi economica, l'uomo non basta a se stesso, sempre più rivolto a soddisfare le esigenze personali di benessere più che ad impreziosire l'anima.
Da piccolo ero più ottimista di adesso. Di quel tempo oggi non rimpiango età e spensieratezza. Vorrei avere di nuovo disincanto e ottimismo. Ho deciso: li recupererò. Buon anno.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

venerdì 26 dicembre 2014

Selfie, che passione. Ci si immortala per essere immortali. In realtà si fanno per dimostrare (a se stessi) di essere vivi




Farsi un selfie, come si chiamano oggi i classici "autoscatti". Obiettivo: immortalarsi. Magari confidando, nel proprio intimo, nell’immortalità. 
Tanto più che molti selfie vengono scattati accanto a ciò che immortale più non è, pur appartenendo alla porpria stessa dimensione. Una specie di “Natura morta 2.0”. Non certo il tradizionale cesto di frutta con i chiaroscuri impossibili che, invano, qualcuno cercava di imparare a scuola durante le ore di educazione artistica. Le nature morte di oggi in realtà sono le lasagne fumanti appena condannate a morte dentro al piatto. Che, poi, altro che morte: le lasagne sono un assoluto distillato di vita.
Oppure un selfie accanto ad un'altra natura morta, cioè la bottiglia semivuota di Nero d’Avola. Così, almeno, i follower capiranno che il protagonista del selfie se l'è scialata.
Ma perché questa irrefrenabile voglia di selfie? Per esibizionismo o per bisogno di immortalità? Forse la seconda che ho detto. Ma la realtà è diversa. Sì, macché immortalità d'Egitto! In realtà ci si fanno i selfie per dimostrare che si è vivi. Il dramma però è che si obbedisce ad un bisogno drammatico: dimostrare a se stessi di essere vivi. 
Ed è questo ciò che più di ogni altra cosa deprime l'anima.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

Rosario Crocetta ha fatto molta pulizia ma non è riuscito a compiere la sua "rivoluzione". E l'antimafia, da sola, non basta più


La Sicilia (intesa come istituzione regionale) sta attraversando una delle fasi più complicate della sua storia. L'ennesimo rischio default, annunciato stavolta dall'Assessore al bilancio Alessandro Baccei (sì, proprio colui che Renzi ha mandato a Palermo per metterci sotto tutela) non è certo tranquillizzante. 
In questo quadro viene fuori lo strapotere dei poteri forti. Che esistono eccome. In Sicilia più che altrove. Il potere forte da queste parti è una melassa viscida e odiosa. Gli ingredienti: quelli di sempre: burocrati, politicanti da strapazzo, mafiosi. Quelli purtroppo non mancano mai.
È contro questo muro di gomma che è andato a sbattere (e continua a farlo) Rosario Crocetta. Due anni dopo la sua elezione, l'annunciata rivoluzione (ahimè) si è rivelata un percorso ad ostacoli, e non ha potuto fare molta strada. Ecco perché ogni volta che lui pronuncia la parola "rivoluzione" francamente mi scappa da ridere.
Certo, la congiuntura economica e le emergenze che negli anni si sono accumulate non gli hanno permesso di raggiungere gli obiettivi. È anche vero, però, che dalla gestione Crocetta viene fuori una verità disarmante, ossia che l'onestà, pur essendo un valore basilare per anni odiosamente accantonato, da sola non è sufficiente a dare risposte politicamente soddisfacenti e a cambiare le cose. Qual è l'alternativa? Essere disonesti? Naturalmente no, ci mancherebbe. L'alternativa è cercare di produrre qualche risultato, perché siamo ad un livello di tensione sociale sempre più allarmante.
Il Governatore della Sicilia ha fatto molta pulizia alla Regione, negarlo sarebbe stupido. Ma è stato, come si dice a Sciacca, come "cogghiri acqua cu 'u panaru", cioè come liberare una piscina di fango usando qualcosa di simile ad uno scolapasta. 
E alla fine il rischio è che ai proclami antimafia, a mio giudizio molto importanti sul piano dell'affrancamento culturale, la gente reagisca facendo spallucce. Ed è questo il pericolo che Crocetta dovrebbe avvertire. Ma che invece non avverte. Ed è questo quello che mi preoccupa. 
Il Presidente della Regione ritiene che la sua storia personale e che la sua straordinaria sfida contro Cosa nostra alla fine possano riscattare la sostanziale inefficacia della sua azione di governo. Così non è, dovrebbe sforzarsi di capirlo.
Troppa gente aspetta risposte. Da anni. Troppi uomini e troppe donne di questa terra sono rimasti nel limbo, in attesa di un cambiamento che non è arrivato. Uomini e donne protagonisti, loro malgrado, di una realtà costruita per decenni sulla clientela, afflitta dal bisogno di un lavoro e di un riscatto sociale. Persone alle quali Crocetta aveva garantito una soluzione. Che però non è arrivata. Forse non per colpa solo sua, intendiamoci. Ma chi era afflitto dal bisogno prima, lo è ancora di più oggi. 
Ecco perché non basta più, caro Presidente, invocare i valori antimafia per cercare di uscire dall'angolo. L'antimafia è sacrosanta. Ora però i siciliani vorrebbero qualcosina in più.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

giovedì 18 dicembre 2014

Italia corrotta. Ma non condivido il "gioco al ribasso" del dire no alle Olimpiadi del 2024. Sarebbe come chiedere a Cristiano Ronaldo di non giocare per non correre il rischio di infortunarsi



«Settimo comandamento: non rubare». Pausa, sorriso sornione, occhi furbetti a cercare la complicità del pubblico che intanto ride rumorosamente. Poi la battuta al vetriolo: «Dio questa regola l'ha scritta apposta per noi italiani, anzi: secondo me l'ha proprio dettata in italiano a Mosè». Durante il suo meraviglioso recital tv (spero alla Rai abbiano capito che non ci vuole poi molto ad assolvere al ruolo di servizio pubblico) Roberto Benigni ha invitato gli italiani a riflettere e a vergognarsi un po' di quello che questo Paese è diventato. Un invito sottotraccia, che non ha escluso nessuno, a partire da quei cosiddetti "onesti" che si incavolano davanti alle notizie del Telegiornale ma girano lo sguardo dall'altra parte se assistono a un fatto strano.
Mi hanno colpito le parole dell'ex Pm di Mani pulite Piercamillo Davigo: «Non hanno mai smesso di rubare, solo di vergognarsi». Trovo che sia una affermazione tostissima, simbolica quasi di un'evoluzione antropologica del potente che ne approfittava, ne approfitta e, ahimè, a questo punto continuerà ad approfittarne. «Nessuno mi ha mai offerto del denaro, non so quindi se sono onesto», disse qualcuno negli anni di Tangentopoli. Perché se è vero che l'occasione fa l'uomo ladro è anche vero che ogni esagerazione si trasforma in patologia. 
Qual è lo scenario oggi? Rassegnarsi ad uno stato di cose che tutti ci rappresentano come inevitabile? Non so rispondere, lo confesso. Noto però una rassegnazione preoccupante di fronte alle obiezioni che stanno venendo fuori sull'opportunità che Roma possa ospitare i giochi olimpici del 2024. Dopo la speculazione sui terremoti (sic!), dopo l'Expo, il Mose (e ovviamente Mafia capitale) il dubbio che la solita cricca possa approfittarne se serpeggia è perfino normale. Ma credo anche che la corruzione non si combatta col gioco al ribasso di chi sta dicendo no ai giochi olimpici. Perché così significherebbe allora che sarebbe meglio che Cristiano Ronaldo non giocasse più se vuole evitare di infortunarsi. 
Il punto vero, secondo me, è che in Italia non vige alcuna certezza del diritto. Dice un mio caro amico magistrato che basterebbe soltanto che in materia di corruzione un condannato scontasse regolarmente la pena, anche se questa fosse di una settimana, di quindici giorni, di un mese, o di due anni. L'assenza di una qualsivoglia espiazione (per condanne di pochi anni non si va in carcere) significa la mancanza del benché minimo deterrente. 
Tanto per provarci, intendiamoci. Perché chi ha smesso di vergognarsi di aver rubato (e di essere stato scoperto) non si vergognerà di nient'altro. Tanto più che la norma non obbliga nemmeno alla restituzione del maltolto. E poi se anche finisse in carcere, il ladro (soprattutto quello potente) riceverà sempre la visita di qualche parlamentare garantista dalla coda di paglia che magari lo andrà a trovare e a prenderne le difese.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

lunedì 15 dicembre 2014

Niente permesso a Totò Cuffaro di andare a trovare la mamma malata di Alzheimer. Il Giudice: «Tanto lei non lo riconoscerebbe». Sentenza rispettabile, ma motivazione discutibile


Non voglio commentare la decisione del Tribunale che ha negato a Totò Cuffaro (che fino al 2016 sconterà la condanna a 7 anni di galera per aver aiutato la mafia) la possibilità di andare a rendere visita alla madre ultraottantenne, malata di Alzheimer. Vorrei dire la mia solo sulla motivazione pronunciata dal giudice competente. 
Mi sembra che opponendo il diniego alla richiesta dell'illustre detenuto, il Tribunale abbia esagerato, andando ben oltre il ruolo che gli compete. Lo ha fatto nel significare che "la malattia svuota senz'altro di significato il colloquio", considerato "sarebbe pregiudicato un momento di soddisfacente condivisione". Insomma: la madre di Cuffaro non riconoscerebbe il figlio, dunque quella visita non serve. Non a lei, almeno. È l'opinione (che vale eccome) del giudice.
Penso che se il Tribunale si fosse solo limitato a dichiarare (cosa che peraltro ha fatto) che la visita di Cuffaro non è urgente perché la mamma non è in imminente pericolo di vita, avrebbe fornito una spiegazione secondo me difficilmente attaccabile. È la considerazione successiva che mi sembra essere andata oltre ogni ragione d'opportunità, rilevando sotto un profilo della sensibilità umana che, lo capisco, non può trovare spazio tra le pieghe delle carte giudiziarie, ma nell'anima degli uomini e delle donne che popolano questo disgraziato mondo dovrebbe forse trovarne. 
Tecnicamente la decisione del Ministro della Giustizia Andrea Orlando di chiedere una verifica ai suoi ispettori servirà a ben poco, lo sanno tutti. Politicamente, tuttavia, la trovo sacrosanta. Anche se non sono certo i simboli quelli che contano in un mondo, quello di oggi, che ci immola sull'altare della concretezza.
Ma un conto è aver negato a Cuffaro i servizi sociali, decisione evidentemente motivata, un altro conto è avergli negato di andare a trovare la madre ammalata sulla base di una motivazione che francamente mi fa venire i brividi, perché rivela una durezza di atteggiamento che alle Istituzioni non è richiesta. 
Perché l'incoscienza della mamma di Cuffaro forse è nella mente colpita dalla malattia. Non lo sarà mai nella sua anima. 

lunedì 8 dicembre 2014

Giornalisti vergognatevi. Quanta ipocrisia in quel prete di Santa Croce Camerina (che sapeva benissimo di venire registrato da quelle telecamere che lo "infastidivano")


"Vergogna". È stato così che il viceparroco di Santa Croce Camerina, tale padre Flavio Maganuco, si è lamentato pubblicamente davanti ai fedeli per la presenza in Chiesa, durante la funzione che stava celebrando, di telecamere e giornalisti. Naturalmente don Flavio sapeva bene che quel suo commento veniva registrato proprio da quelle telecamere, proprio da quei giornalisti. Trovo, dunque, che più o meno ipocritamente il prelato abbia quantomeno contraddetto se stesso, sempre che il suo "vergogna" sia stato sinceramente proferito.
Penso poi che sia un brutto lavoro quello del cronista. D'altronde in cinema e in letteratura il giornalista viene sempre rappresentato come un rompiscatole che non rispetta la privacy, che bussa alle porte alla ricerca di un dettaglio o di una dichiarazione, che cerca uno spunto per fare al meglio il proprio lavoro ed onorare i propri impegni. Spesso per pochi euro, intendiamoci, in un mondo quello di oggi in cui lo sfruttamento di questa professione è sempre più esagerato.
Ma sfugge ai più, naturalmente, che nell'esercizio di questo lavoro l'obiettivo è sempre quello di soddisfare l'interesse pubblico. L'omicidio di un bambino rientra decisamente in questo contesto. Certo, sta poi alla professionalità di ciascuno esercitare questo ruolo con senso della misura e della responsabilità. Ma quale categoria non ha pecore nere? Nessuna, neanche quella dei preti (ahimè).
Entrare in Chiesa per sentire cosa avrebbe detto il prete sulla tragedia del piccolo Loris era un normalissimo esercizio della libertà di stampa. Eppure padre Flavio questo non l'ha gradito. Certo, avesse detto qualcosa su questa immane tragedia, più che invitare i giornalisti a vergognarsi, avrebbe fornito un servizio essenziale non solo alla comunità cristiana, ma anche a quella laica, lanciando magari un messaggio ecumenico affatto banale, ricordando ad esempio che i bambini non si sfiorano neanche con un dito. Non ha fatto niente di tutto questo padre Flavio. Ha solo invitato solo i giornalisti a vergognarsi perché la comunità è stanca e arrabbiata. 
Quando l'assassino di Loris sarà arrestato il circo mediatico lascerà Santa Croce Camerina. Magari padre Flavio ne sarà felice. Ma padre Flavio dovrebbe ricordare ai suoi fedeli che c'è molto peggio della comunità "disturbata" dalla presenza dei giornalisti: il corpicino senza vita di Loris. Che non poteva aver fatto male a nessuno.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

Morire sul palcoscenico: tutti gli artisti sperano che quando sarà la propria ora accada così. Addio a Mango, professionista perbene e nemico dello showbiz

Dicono che sia il sogno di ciascun artista: quando sarà la loro ora sperano di morire sul palcoscenico. È accaduto a Mango. Un ottimo professionista dello spettacolo, nemico dello showbiz (pagandone le conseguenze) eppure assai più capace di tanti suoi colleghi osannati da stampa e discografia. 
Lo scorso mese di settembre Mango si è esibito a Ribera, a margine del Pizzafest. La sera del suo concerto il pubblico vide con i propri occhi la sofferenza fisica. L'artista interruppe il concerto, un'ambulanza lo trasferì all'ospedale di Sciacca per accertamenti. 
Nei miei inizi di speaker radiofonico lo programmavo spesso nelle mie trasmissioni. Trovavo che fosse un artista particolare, geniale a suo modo. Una sera di 25 anni fa un mio amico suo fan sfegatato costrinse l'intera compagnia ad andarlo a sentire a Bivona. Fu una serata bellissima.
Negli ultimi tempi ho scoperto tramite Spotify un album di cover di Mango. Un brano su tutti mi ha entusiasmato: l'esecuzione di "Canzone", successo di Don Backy eseguito con un meraviglioso arrangiamento. 
Gli artisti si salutano con il frutto della loro arte. E io lo faccio con questo brano.

venerdì 5 dicembre 2014

Mafia Capitale conferma che malaffare e politica non sono solo alleati ma facce della stessa medaglia


L'operazione "Mafia capitale" viene rappresentata dal mondo dell'informazione come una sorta di spartiacque nella lotta dello Stato contro la criminalità organizzata. Gli interessi economici, e la loro co-gestione attraverso un mondo della politica che più che complice appare protagonista principale, suscitano riflessioni diverse.
Si può dire che si registra, in particolare, una sostanziale parificazione tra delinquenza (tutt'altro che comune, ahimè) e politica. Checché qualcuno possa pensare che la predetta parificazione, alla luce di fatti che conosciamo tutti da tempo, fosse ormai da ritenersi scontata, al contrario a me appare come il vero elemento di novità che viene fuori in un mondo della corruzione sempre più dilagante, dimostrando non solo che la mafia ha bisogno della politica, ma che arriva a decidere al posto della politica. 
Prima che si apprendesse dell'esistenza stessa dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia si era sempre sempre immaginato che le connivenze, pur dannose e dagli esiti che tragicamente possiamo ripescare nella memoria collettiva, si fossero determinate con accordi inconfessabili tra la criminalità e solo una parte del mondo politico, quello (ovviamente) che gestiva il potere. 
Ma l'inchiesta di Roma sta clamorosamente superando questo concetto, e ci pone davanti ad un quadro drammatico, nel quale oggi non si arriva più a percepire alcuna differenza tra il criminale e il politico: figure non più distinte ma speculari. Se il processo sulla trattativa dovesse confermare il quadro accusatorio elaborato dalla Procura di Palermo, la parificazione sarebbe totale. È uno scenario preoccupante. 
Ma dobbiamo essere pronti eventualmente a prenderne atto e a riscrivere i libri di storia. E dovremo ammettere che il malaffare non ha mostrato differenze di schieramento politico. Ed è questo quello che deprime sul nascere ogni ipotesi di un mondo migliore per i nostri figli.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

martedì 2 dicembre 2014

Casapound a Sciacca e la strana, imbarazzante, ingenua sorpresa di chi non capisce il motivo di certe reazioni


Stupirsi dello stupore, sgranare gli occhi, cadere dalle nuvole, domandarsi perché e percome possa essere successo. Ma c'è assai poco di cui sorprendersi. Se uno zombie ci incontrasse al cimitero e fosse lui ad avere paura di noi, quello sì sarebbe sorprendente. Oppure potrebbe sorprendere se un uomo mordesse un cane (per ricorrere alla metafora più famosa usata dagli insegnanti di giornalismo).
Succede  a Sciacca nelle ore che precedono la conferenza di Alberto Palladino, noto con il nome di battaglia di "Zippo", uno dei capi di "Casapound" che farà da testimonial ad una iniziativa di solidarietà, qualcuno si sorprenda delle reazioni che ne stanno venendo fuori.  
L'iniziativa di Sol.Id for Gaza è incentrata sulla solidarietà, sulla conoscenza di alcune esperienze di volontari in favore di popoli oppressi del mondo. Ma se in questi giorni non si parla del contenuto dell'iniziativa come vorrebbero gli organizzatori forse la "colpa" è proprio loro. Il punto è che l'affiancamento di Casapound all'evento non era inevitabile, visto che la onlus è una diramazione diretta dell'organizzazione neofascista. Evitabile sarebbe stato probabilmente che il Comune concedesse l'utilizzo della Chiesa di Santa Margherita. Sarebbe stato appena sufficiente informarsi un po'. Si sarebbero così scoperte molte cose che avrebbero dovuto impedire, per ragioni di opportunità, la concessione dell'immobile comunale. E si sarebbero evitate tante discussioni. E anche questa ingenua sorpresa che è venuta fuori.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

"Qualunque cosa succeda". Una rappresentazione di due italie: da una parte quella cialtrona di Sindona, dall'altra quella nobile di Giorgio Ambrosoli


La fiction tv "Qualunque cosa succeda", con un magistrale Pierfrancesco Favino protagonista, è la rappresentazione implacabile e oserei dire perfino impietosa di due italie: da una parte quella cialtrona e figlia di puttana dei tanti Michele Sindona che hanno affollato questo Paese maledetto, e dall'altra quella nobile e pulita dei (pochissimi) Giorgio Ambrosoli, combattenti solitari mandati in trincea approfittando del loro senso del dovere.
Il film di Alberto Negrin ci racconta un pezzo della storia d'Italia, dove un uomo come Ambrosoli non poteva che affogare nella marmellata criminale (mafia, massoneria, speculazione, politica corrotta e chiesa deviata). 
Questa fiction sarebbe una bella lezione di storia per i nostri ragazzi, che ogni anno di questi tempi scoprono di possedere una coscienza civile applicata però esclusivamente all'occupazione delle scuole. Dubito, tuttavia, che siano stati tanti quelli che l'hanno vista. Onore a chi l'ha fatto. 
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

venerdì 28 novembre 2014

Lo "stanchino" Beppe Grillo nomina un direttorio. Uno non vale più uno, dunque. Ma c'è un futuro per il Movimento Cinquestelle?


La si pensi come si vuole ma il "quintetto" prescelto da Grillo e Casaleggio, "apprezzato" dal 91% della rete pentastellata, pone fine al proverbiale "uno vale uno", espressione che ha letteralmente frantumato gli zebedei, dal primo "vaffa" in piazza a Bologna in avanti. Adesso è "plastico" che uno non vale più uno: ci sono cinque fedelissimi che dirigeranno l'azione politica. 
A Vesper 2.0 (in onda da domani su Rmk) il deputato regionale grillino Matteo Mangiacavallo sostiene che i recenti insuccessi elettorali del Movimento Cinquestelle scaturiscono dalla campagna denigratoria che la grande stampa avrebbe "organizzato" nei confronti del grillismo. 
Ammettendo (pur non concedendo del tutto) che la campagna denigratoria ci sia, trovo riduttivo (e l'ho detto in trasmissione) attribuire solo a questa il calo di consensi di Grillo. Che non a caso si è detto "stanchino". 

Forse perché Beppe non si aspettava certo di finire (perfino lui) al centro di contestazioni clamorose, tra cui quella genovese dopo l'alluvione, quella che sicuramente più delle altre gli ha fatto male, a sancire drammaticamente che proprio nessuno è profeta patria. 
Ciò detto, negare che il grillismo abbia costretto tutti gli altri protagonisti della vita pubblica a scoprire la bellezza della democrazia (e dello streaming) sarebbe disonesto. Ma alla fine il Movimento Cinquestelle ha mostrato grossi limiti di proposta. La politica dei no "a prescindere" evidentemente non ha pagato. "Grillo non è il Movimento", dice con sincerità sempre a Vesper 2.0 Matteo Mangiacavallo. Grillo non sarà il Movimento ma ne sceglie il direttorio, si potrebbe rispondere. 
La domanda è: c'è un futuro per il Movimento Cinquestelle? Se continuano a soffiare i venti di scissione temo di no. Dinamiche tipiche, all'italiana. Nasceranno due movimenti da due stelle e mezzo ciascuno? I grillini più ortodossi dovrebbero forse ragionare su un tema: chi in passato ha votato per il Movimento non ha cambiato direzione, ma forse ha solo preferito restare a casa. 
Il primo obiettivo del cosiddetto "direttorio" (che brutta terminologia per chi voleva rivoluzionare anche il linguaggio) potrebbe essere quello di convincere queste persone a tornare alle urne. Magari facendo un po' di sana autocritica, non limitandosi ad incolpare il destino cinico e baro.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

mercoledì 26 novembre 2014

Berlusconi pronto a "perdonare" Alfano: l'ultimo colpo di scena di uno a cui la politica italiana non interessa più nulla



Nella migliore delle tradizioni mistificatorie Silvio Berlusconi ieri si è detto disponibile a "perdonare" Angelino Alfano. Ma perdonarlo da che cosa? Evidentemente dalla decisione dello scorso anno assunta dall'ex delfino, che improvvisamente decise di colmare il "gap" che gli mancava opponendosi, piuttosto coraggiosamente, va ammesso, ad una rinascita di Forza Italia più dettata dalla rabbia del capo per la sua condanna definitiva subita sulla questione dei diritti tv Mediaset che per ragioni politicamente alte e nobili.
Non risulta che qualcuno abbia chiesto perdono a Berlusconi. Ma lui vuole apparire sempre come il Giulio Cesare tradito da Bruto. Perché lui continua a ritenersi infallibile, pur sapendo che la storia ha sancito che infallibile non era (e non è). Tanto più che oggi Alfano potrebbe perfino contrattaccare, dicendo che non è certo lui colui che deve chiedere perdono, e che la sua scelta di non arroccarsi sulle posizioni estremiste (suicide) imposte da un certo "brunettismo" in definitiva è stata vincente. 
Ma  Angelino Alfano conosce troppo bene Berlusconi. Il quale dal canto suo sa bene che il Centrodestra non gli appartiene più, così come fatica ad esistere ancora. Il capo è ormai costretto a tentare qualunque strada per convincere che la politica italiana continui ad interessargli qualcosa. Un po' come il Milan, diciamolo pure. 
Il patto del Nazareno è per lui intoccabile. La sensazione è che lo sia non tanto per i risvolti riguardanti le possibili riforme istituzionali, quanto per gli impegni che Matteo Renzi sta prendendo ancora una volta per salvare il suo impero televisivo (maxisconto già accordato dall'Agcom sui canoni per le frequenze tv sia a Rai sia a Mediaset è un segreto di Pulcinella per non essere annoverato tra le intese inconfessabili).
Ma prima del ritiro Berlusconi vuole lasciare l'eredità politica, sapendo bene (compiaciuto) che c'è un sacco di gente che continua a pendere dalle sue labbra. Un'eredità sotto forma di un Centrodestra costretto però a rincorrere, su posizioni che definire oltranziste è un eufemismo, il leader leghista Matteo Salvini. 

E alla fine il "perdono" annunciato da Berlusconi ad Alfano (spero che il Ministro non faccia l'errore di assecondarlo) secondo me è solo il foglio di via definitivo a Raffaele Fitto. Come dire: io a te il partito non lo darò mai. A costo di organizzare improbabili casting per scegliere i dirigenti del futuro, a costo (perfino) di far tornare all'ovile la pecorella smarrita Angelino Alfano.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

martedì 25 novembre 2014

Gli applausi (ipocriti e blasfemi) di Bruxelles a Papa Francesco dicono che dal 2015 non possiamo aspettarci niente di buono


Tra poco più di un mese arriverà il 2015. Quello vero. Che non è certo quello che Robert Zemeckis e Steven Spielberg ci fecero immaginare trent'anni fa in "Ritorno al futuro II": niente auto volanti, niente skateboard sospesi, niente giacche che si asciugano automaticamente né "autolacci" per non farci scomodare ad abbassarci per sistemarci le scarpe. Niente doppie cravatte come quelle (improbabili) indossate dal Marty McFly del futuro.
No. Questo 2015 è tutt'altro che simbolo della modernità. Che gli autori di quella magnifica saga cinematografica avrebbero anche potuto immaginare perfettamente se solo avessero disegnato e trasposto sul grande schermo una raffica di cloni (che é è questo ciò che siamo diventati) tutti con la testa china sulla tastiera del telefonino o del tablet. 
In realtà il mondo del 2015 (quello reale) è il simbolo del degrado culturale, sociale, politico e (ahimé) economico, che ci trasciniamo ormai da anni. Quella deriva che ha allargato in maniera sempre più preoccupante il divario tra ricchezza e povertà, tra chi ha perso perfino la dignità e chi invece sguazza nell'oro. Perché il problema non è la mancanza di assunzioni, ma la necessità di avere leggi che permettano di licenziare chi lavora. 

È un mondo drammaticamente squilibrato quello nel quale viviamo. Quello dell'austerità rigida (per l'interesse di pochi) che ha mortificato la crescita e aumentato la miseria. Papa Francesco, che proprio oggi a Bruxelles ha invitato i capi europei a ricordarsi di restituire dignità al lavoro, si è visto tributare una marea di applausi. 
Delle due l'una: o non hanno capito cosa ha detto il Pontefice oppure, battendogli le mani, hanno esercitato la più blasfema delle ipocrisie.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

lunedì 24 novembre 2014

Dal Berlusconismo al Salvinismo: diventa sempre più preoccupante l'identikit della Destra italiana


"Bossi chi"? Possono ben domandarselo ormai i nuovi dirigenti della Lega nord, che alle ultime regionali ha "doppiato" Forza Italia. Un dato che fornisce indicazioni significative circa lo "stato di salute" del Centrodestra italiano. La scelta del leader di Forza Italia di selezionare attraverso un vero e proprio "casting" di giovani leve la nuova classe dirigente del suo partito apre scenari completamente inopinati, a partire dalla sostanziale inadeguatezza che Silvio Berlusconi riconosce nei confronti di chi dovrebbe prenderne il posto (immortalità o meno prima o poi accadrà). Con buona pace di uno come Raffaele Fitto, che dopo l'addio di Angelino Alfano pensava che finalmente toccasse a lui, costretto però a non potere capacitarsi del fatto che ad una sostanziosa clientela elettorale non corrisponde un possibile efficace esercizio della leadership. 
Ma quello che fa riflettere è che sul piano della strategia politica ormai i moderati italiani "inseguono" Matteo Salvini. È lui il vero leader della Destra. Ora, i puristi mi perdoneranno, il passaggio dal Berlusconismo al Salvinismo è indicativo di una deriva decisamente preoccupante. Cercare l'intesa con Salvini, che come tutti i vincenti in questo momento non fa altro che alzare il prezzo, obbedisce solo ad una logica numerica, non certo di proposta politica. Tanto più che Salvini è colui che ha già fatto un accordo politico con Marine Le Pen, erede di Jean Marie e, non a caso, di quella destra (qui lo scrivo minuscolo) più xenofoba e razzista che ci sia, quella che si sta diffondendo in Europa. 

Si dirà: chi vota Lega in massima parte è chi ha colto il messaggio più semplice, il "No Euro" che ha già permesso all'altro Matteo di interpretare quei bisogni di cambiamento che il Movimento Cinquestelle ormai ha dimostrato di non sapere più interpretare. Sullo sfondo però rimane un problema di credibilità anche a livello internazionale.
A Matteo Salvini tutto questo ovviamente non interessa. Perché alla fine "carta canta", e i risultati elettorali gli danno ragione. E se il Partito Democratico non litigasse così tanto potrebbe approfittarne ancora di più. Perché come il 41% delle Europee fu un segnale di fiducia a Matteo Renzi, il dato dell'astensionismo (anche se tradizionalmente si astiene l'elettorato moderato) è un segnale di insofferenza verso una politica sempre più parolaia, che pensa di risolvere i problemi della ripresa economica ad esempio aumentando l'IVA. 
Massimo D'Antoni
Twitter: @dantonisciacca

venerdì 21 novembre 2014

Landini accusa chi sostiene Renzi di non essere onesto. Poi si scusa. Meno male

Bisogna riconoscere a Maurizio Landini di non essersi arrampicato sugli specchi: ha riconosciuto di aver detto una cavolata senza invocare il contesto o, peggio, senza accusare gli altri di averlo frainteso. Ciò premesso, la sua dichiarazione secondo la quale il Premier Matteo Renzi non avrebbe il sostegno delle persone oneste rientra, tutto sommato, nel solito viziaccio di una certa Sinistra. Idee di questo tipo sono piuttosto diffuse, soprattutto in certi salotti radical-chic, anche se questi nulla hanno a che fare con il leader della Fiom. 
L'idea di base detenuta a denti stretti è che chi non la pensa in una certa maniera o è culturalmente limitato oppure è in malafede. Non si scappa. Ho sempre tentato di ribellarmi a questa impostazione. Con scarsi successi, lo ammetto. Un'impostazione generale che induce a giudicare malamente perfino gli stessi gusti artistici. Un'elaborazione del "pensiero unico" all'amatriciana. 
Più che il conflitto sociale questo scivolone di Landini fa tornare alla ribalta una certa intolleranza di chi pensa di essere il detentore della verità. Lo chiamano complesso di superiorità.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

giovedì 20 novembre 2014

Sindaci sempre più (unici) parafulmine del malcontento della gente. Spesso loro malgrado


Un tempo venivano solo fischiati o contestati in maniera tutto sommato civile, entro i canoni della buona creanza. Sempre più spesso oggi invece vengono aggrediti, perfino malmenati. Sto parlando dei sindaci e degli amministratori in genere. Il catanese Enzo Bianco è una delle vittime più recenti, mentre qualche giorno fa se i primi cittadini di Genova e Carrara non fossero stati protetti dalle forze dell'ordine chissà cosa sarebbe successo. Vogliamo parlare del primo cittadino di Roma Ignazio Marino?
Si dirà: è l'evoluzione del "piove governo ladro", anche se un celebre comico milanese anni fa faceva notare che "il governo comunque è ladro anche se non piove". Il problema oggi è che la situazione è diventata complicata. La gente ha fame (letteralmente) e con qualcuno se la deve pur prendere. La violenza ovviamente era e rimane ingiustificata. Ma non sottovaluterei le ragioni del cittadino comune, quello che non capisce più il teatrino della politica, con questi protagonisti che litigano impunemente non capendo che l'interesse collettivo chiede ben altro.

È indubitabile, in ogni caso, che ai sindaci si attribuiscono troppe responsabilità, più di quelle che effettivamente hanno. Sono loro i primi, i secondi e i terzi punti di riferimento della gente. E sono loro quelli che rischiano di pagarne le conseguenze più serie. 
Questo non è giusto. C'è un senso della misura che rischia giornalmente di sfuggire non (sempre) per colpa degli amministratori ma loro malgrado. 

mercoledì 19 novembre 2014

Non solo trattativa: "l'altra" lotta alla mafia continua a produrre risultati


Se questo famoso "cerchio" attorno a Matteo Messina Denaro si fosse ristretto davvero così tanto, come dicono tutti, il superboss probabilmente non avrebbe lo spazio neanche per andare in bagno. Purtroppo così non è. E forse non è certo solo il bagno il posto che il capo oggi riesce a frequentare più o meno liberamente. Oggi possiamo "solo" apprezzare l'ennesima raffica di arresti di personaggi che, pare, fanno parte del suo clan. Non è poco, intendiamoci. Buon lavoro ai magistrati antimafia, che continuano a cercare di riscattare questa terra, malgrado molti indigeni e altrettanti rappresentanti politici ne siano sostanzialmente infastiditi.

Di Matteo Messina Denaro in ogni caso continua a non esserci alcuna traccia. Almeno fino a questo momento la terra bruciata attorno al capo dei capi, se c'è, evidentemente si rinnova in quattro e quattr'otto, e per ogni fiancheggiatore che finisce in carcere ce n'è subito un altro pronto a prendere il suo posto. Il suo esercito continua a sopravvivere, la sua cattura invece è rinviata. Evidentemente a data da destinarsi.
Gli arresti di oggi però dicono molto. Dimostrano, tanto per fare un esempio non secondario, che nella lotta alla mafia la magistratura (per fortuna) lavora su fronti diversi, anche se sotto i riflettori di giornali, telegiornali e talk show ci finiscono solo ed esclusivamente i processi sulla trattativa Stato-mafia. Trattativa che c'è stata, e la morte di Paolo Borsellino da questo punto di vista grida vendetta. Ma non faccio né il pm né il giudice, non conosco gli atti  processuali, anche se mi permetto rispettosamente di pensare che l'audizione del Presidente della Repubblica mi ha dato la profonda impressione di essere stata solo una inutile perdita di tempo, come d'altra parte ampiamente prevedibile.
C'è anche una lotta alla mafia che procede sui binari della dura quotidianità. Ed è davanti a questa che, oggi, mi tolgo il cappello.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca  

lunedì 17 novembre 2014

Razzisti? Si può esserlo, ma solo nei confronti dei cretini. I quali, come sanno tutti, non hanno passaporto

«Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono napoletani».Così gli "onorevoli" Rotunno e Gramaglia (Covatta e Paolantoni) ai primi anni '90 arringavano, da un'improbabile Tribuna politica su Odeon Tv, sfottendo in modo straordinario l'avanzata leghista. C'era ben poco da ridere già allora, e loro lo sapevano bene, malgrado le risate registrate in stile sit-com.
In massima parte i razzisti si arrabbiano se li si accusa di esserlo. E precisano di non essere razzisti, ma che i problemi da loro sollevati non possono essere più sottovalutati. Ora, premesso che è vero che spesso si rischia di liquidare ogni questione sollevata, anche la più ragionevole, come l'espressione di un razzismo (anche quando questo non c'è), è anche vero che "sotto sotto" il più delle volte è solo ed esclusivamente razzismo, al di là di patetici tentativi di travestirli da altro.

Parliamo del fenomeno migratorio. Molti non capiscono che Lampedusa è davvero la porta d'Europa. Chi sospetta che chi approda qui viene a "toglierci il lavoro" (per dirla con uno dei tanti slogan fasulli) non sa che di fatto chi approda qui in realtà poi si disperde per ricongiungersi con i propri cari. I quali sono disseminati ovunque: Svezia, Olanda, Germania, Gran Bretagna, Francia. Anche Italia, naturalmente. In Italia ci rimane però una piccola parte. Sempre che questo possa rappresentare un problema in un mondo, quello di oggi, profondamente cambiato. 
Ma il razzismo latente è quello che induce a sospetti, dubbi, paure. Facendo dimenticare perfino che la criminalità indotta fisiologicamente dai fenomeni migratori (bandiera della Destra, non solo di quella estrema) alla fine non è peggiore né migliore di quella "nazionale". Ci fa trascurare il dato reale che ci sono molti delinquenti  italiani, i quali non è che siccome sono nostri concittadini sono più "affidabili" di quelli stranieri. 
Se c'è un problema questo va affrontato, ma senza pregiudizi. Perché alla fine razzisti si può e si deve esserlo, ma solo nei confronti dei cretini. E i cretini, come sanno perfino le pietre, non hanno passaporto.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca 

venerdì 14 novembre 2014

Rassegniamoci pure: le prospezioni petrolifere ci saranno, la battaglia è perduta, meglio occuparsi d'altro


Folgorato sulla via del petrolio, perfino Rosario Crocetta attribuisce all'approdo delle trivelle nel canale di Sicilia un'importanza straordinaria. Parla di "royalties" che saneranno i bilanci degli enti pubblici e di posti di lavoro a iosa che le prospezioni petrolifere garantiranno ai siciliani. 
Questa vicenda, in generale, suscita diverse riflessioni. Se da un lato non può sfuggire il "pericolo" che la nostra terra, abituata a piangersi addosso per la mancanza conclamata di opportunità di sviluppo, quando ne ha una come questa chieda in buona sostanza di farne a meno, dall'altro si può osservare che le ricerche di idrocarburi nel mare siciliano obbediscono ad una scelta di sviluppo economico ormai conclamata. E questo anche se si tratta di una scelta che contraddice nettamente l'idea di un territorio così amato da chi lo visita soprattutto per le sue più importanti risorse naturali: il paesaggio e il mare. 

Sono stati giudicati trascurabili, ad oggi, gli aspetti sismici e vulcanologici che caratterizzano i fondali per centinaia di chilometri e che hanno visto gli esperti lanciare allarmi concreti, rimasti tuttavia inascoltati. 
Dopo che Renzi ha detto che non intende sottostare alle battaglie dei comitati locali (si riferiva alla Sicilia, alla Calabria e alla Basilicata) la sensazione piuttosto netta è che occorra rassegnarsi. 
Sì perché il Governo una decisione l'ha presa, ed è quella di consegnare il canale di Sicilia (e non solo questo) alle industrie petrolifere. L'ha fatto obbligando anche la maggioranza parlamentare ad approvare, a sacco d'ossa, il decreto sblocca Italia. L'ha fatto malgrado gli ordini del giorno (inchiostro miseramente sprecato) presentati dall'Ncd contro le trivellazioni. 

Insomma: non è per pessimismo, ma forse sarebbe meglio accettare la sconfitta e cominciare ad occuparci d'altro.
Massimo D'Antoni
@dantonisciacca

giovedì 13 novembre 2014

Tv locali abbandonate dallo Stato. 70mila posti di lavoro a rischio in Italia


Settantamila posti di lavoro. È questo il numero degli addetti delle emittenti locali che, per colpe non certo addebitabili a loro, rischiano di finire in mezzo alla strada. Il problema scaturisce dall'introduzione del digitale terrestre (giugno 2012). Lo Stato a suo tempo ha assegnato delle frequenze, obbligando le aziende ad adeguamenti tecnologici che, di fatto, le hanno dissanguate.
Nel frattempo l'Unione Europea ha aperto una procedura d'infrazione contro l'Italia perché alcune di quelle frequenze "disturbano" segnali Tv di altri paesi (Malta, Francia, Croazia). Soluzione trovata dall'Ue: il ritiro delle frequenze. E i soggetti Tv all'epoca riconosciuti "operatori di rete"? Addio, possono chiudere. Con buona pace delle belle parole sullo sblocca Italia e sulla ripresa economica dietro l'angolo. A meno che le predette emittenti non trovino la possibilità di farsi ospitare da altri operatori di rete che non disturbano nessuno. Operazione tutt'altro che gratuita, s'intende.
Lo Stato italiano, molto attento negli ultimi anni a risolvere problemi dei grossi gruppi editoriali (e di conseguenza politici, ogni riferimento è puramente intenzionale) si sta assolutamente disinteressando del destino di tantissimi lavoratori che dal primo gennaio prossimo rischiano di finire in mezzo alla strada. Il punto è che se le frequenze che lo Stato aveva deciso di assegnare non andavano bene, che colpa ne hanno le emittenti? La soluzione sarebbe stata quella di assegnarne altre che non disturbassero nessuno. E invece niente. Per i 15 mila lavoratori di Alitalia una soluzione è stata trovata. Per 70 mila operatori delle emittenti locali la soluzione è un ristoro economico per le emittenti interessate. E i lavoratori? Il loro destino a questa classe dirigente non interessa. E il dubbio che si vogliano soltanto "zittire" tante voci libere è dietro l'angolo. 
Succede anche in Sicilia, l'unica regione d'Italia (Governo Lombardo ma anche quello attuale) che non ha aiutato le emittenti locali costrette ad adeguarsi all'introduzione del digitale terrestre. Tutto questo avviene in un silenzio assordante, in un clima di manifesta inutilità di una classe parlamentare per la quale le Tv locali sono importanti solo se e in quanto forniscono un microfono.
Massimo D'Antoni
twitter: @dantonisciacca

mercoledì 12 novembre 2014

Il Teatro Samonà e l'accidia di un popolo che troppo spesso dimostra di sapere soltanto puntare il dito

Che le cose vadano male è assodato. Così come lo è, però, il compiacimento generalizzato di fronte a questa triste realtà. C'è una soddisfazione che trovo insopportabile da parte della mia gente di fronte al fatto che il Teatro Samonà forse non aprirà mai, e registro sghignazzi irritanti di fronte all'oggettiva contraddizione della avvenuta recente collocazione delle poltrone per il pubblico quando il proscenio ad oggi è solo un muro di cartongesso. Siamo contenti di poter dire che il Teatro è un pugno nell'occhio, un'opera inutile, simbolo della megalomania e bla, bla, bla. Abbiamo innalzato (credo correttamente) questo impianto a simbolo di un certo malcostume. Ma è giusto affrontare la questione sempre e solo con la testa rivolta all'indietro? A questa domanda rispondo di no.


Anni fa sul mio precedente blog commentai l'idea del grande regista Werner Herzog, che parlando del Teatro Samonà immaginò il ciak di un suo film con la cinepresa che impietosamente ne riprendesse l'implosione fisica con un bel po' di cariche di dinamite che lo stesso Herzog si sarebbe premurato di piazzare. Osservai che la provocazione di Herzog fosse culturalmente interessante, ma che alla fin fine, visto che ormai c'era forse era meglio che il Teatro ce lo tenessimo (anche perché demolirlo non sarebbe un'impresa gratuita), sperando in una soluzione per la sua apertura e gestione. 

Registrai a quel mio commento opinioni di genere diverso. Ma come si fa a negare che da allora ad oggi molte cose sono cambiate? Un po' di lavori in questo Teatro (dopo vent'anni in cui non si faceva più nulla) sono stati fatti. Difficile pensare che un domani questo potrà essere il Teatro che Giuseppe Samonà avrebbe voluto, ma tant'è. Qualcosa probabilmente potremo ricavare da questo gigante di cemento, dopo 40 anni dalla posa della prima pietra e altrettanti caratterizzati da strali e improperi lanciati dai saccensi a chi ha voluto questa struttura.

Ma il teatro Samonà non è solo il simbolo del degrado e del malcostume. No, è anche il simbolo dell'accidia del mio popolo. Che spesso dimostra di saper fare solo una cosa: puntare il dito. Denunciare e lamentarsi. Con, sullo sfondo, quello strano e culturalmente devastante compiacimento. 

Massimo D'Antoni
twitter: @dantonisciacca

Il carcere duro: perché il dibattito sul singolo caso Cospito si sta estendendo sulla norma nella sua interezza

Avere trasformato la singola questione riguardante lo sciopero della fame dell'anarchico Alfredo Cospito in un dibattito (con molte, tro...